Un’inchiesta del Christian Post mette in luce alcuni degli ultimi abusi contro le famiglie di cui è accusata la Barnevernet, l’agenzia pubblica norvegese che si occupa della protezione dei bambini. Da quasi quattro anni una cittadina americana di nome Amy Jakobsen Bjornevag, nata a New York e trasferitasi da ragazzina con la famiglia in Norvegia (il Paese d’origine del padre), è stata privata totalmente del diritto di vedere il figlio Tyler. Ma perché è avvenuto questo? L’incubo è iniziato il 23 luglio 2013, quando Tyler aveva 19 mesi e dopo che la madre aveva avuto qualche difficoltà a fargli mangiare cibi solidi. Quel giorno la polizia e alcuni agenti della Barnevernet sono entrati in casa di Amy, a Lyngdal, e hanno costretto la donna, Tyler e il padre del bambino a seguirli in ospedale. Qui la madre è stata accusata di allattare ancora il figlio e di non aver “spinto abbastanza per i cibi solidi”.
L’entità del problema? Le è stato detto che il bambino doveva pesare 22 libbre (quasi 10 chili) anziché 21 (poco più di 9.5 chili) e che presentava una carenza di vitamina B12. Sulla base di tale minima questione la donna è stata privata dei suoi diritti genitoriali, senza che nemmeno l’agenzia si sforzasse di fare una piena indagine sulla sua capacità di essere madre, limitandosi a farla ascoltare da uno psicologo. Il 22 settembre 2014 è stato l’ultimo giorno in cui Amy (nella foto a sinistra con il figlio, prima dell’allontanamento), che intanto continua la sua battaglia nei tribunali, ha potuto vedere il figlio e da allora le tengono nascosto anche il luogo dove si trova Tyler. Il suo avvocato ha detto che i documenti legali indicano che le autorità hanno cambiato il nome di Tyler in diverse occasioni per dargliene uno “più norvegese”.
Gli ordini di allontanamento della Barnevernet devono essere approvati dai funzionari delle contee norvegesi, ma le statistiche mostrano che questi danno ragione all’agenzia pubblica in circa il 91% dei casi. I dati ufficiali relativi al 2015 mostrano che 1.545 minori sono stati allontanati dalle loro famiglie (cioè 1.4 ogni 1.000 abitanti di 0-17 anni). Secondo Kristin Steinrem, direttrice del Norwegian directorate for children, “un ordine di affidamento è sempre l’ultima spiaggia, e non può essere fatto se misure volontarie possono fornire soddisfacenti condizioni per il bambino”. Eppure i fatti dicono altro. Molti ricorderanno l’indignazione sorta tra il 2015 e il 2016 contro la Barnevernet, che aveva tolto cinque bambini a una coppia cristiana rumena, Ruth e Marius Bodnariu, sulla base di qualche sculacciata data ai figli; tutta la questione era nata dalla segnalazione di una preside che aveva definito i genitori “molto cristiani”. Solo la mobilitazione internazionale, unita alla constatazione che non vi era alcuna traccia di maltrattamento, ha permesso ai cinque bambini di poter riabbracciare i loro genitori.
Il Christian Post ha intervistato pure, garantendo l’anonimato, un’altra famiglia di immigrati cristiani, di diversa provenienza. In questo caso i genitori hanno deciso di lasciare la Norvegia perché terrorizzati dall’eventualità che la Barnevernet potesse allontanarli dalla figlia più piccola, dopo essere già stati privati della figlia più grande. Dopo molti anni trascorsi nel Paese scandinavo, i loro problemi sono iniziati nel 2016 quando un medico ha avanzato il “sospetto” di un abuso sessuale da parte del padre sulla figlia maggiore, accusa che la famiglia ha sempre totalmente respinto e dalla quale l’uomo è stato scagionato dopo un’indagine della polizia. Nonostante ciò, l’agenzia norvegese si è rifiutata di far tornare la figlia più grande con la sua famiglia e ha fatto allontanare dalla coppia anche la figlia minore, restituendola ai genitori solo dopo l’ordine della contea competente.
RAGIONI ETNICHE E RELIGIOSE?
La famiglia, vedendosi ancora attaccata dalla Barnevernet (il padre ha dormito per sei mesi fuori casa, perché l’agenzia lo avrebbe minacciato di portargli via la seconda figlia se fosse rientrato nella sua abitazione), ha deciso infine di trasferirsi negli Emirati Arabi. La madre e Marius Reikeras, un avvocato che sta seguendo molti casi del genere, hanno riferito che la Barnevernet ha detto ai funzionari della contea che ci sarebbero “altre ragioni” per prendere in affido la figlia più piccola. Quali ragioni? Etniche e religiose, messe nero su bianco in un documento della contea, laddove si asseriva, secondo quanto riferisce Reikeras, che “non è ancora troppo tardi per trasformare questa figlia nella cultura norvegese”. L’avvocato ha detto di essere rimasto scioccato da queste parole, che mai aveva letto in vita sua, e ha commentato: “È ovvio che la ragione principale per prendere questa bambina più piccola era perché volevano essere sicuri che lei acquisisse la cosiddetta identità norvegese senza l’interferenza religiosa o culturale dei genitori”. La madre ha spiegato che lei e il marito hanno fatto di tutto per collaborare con le autorità, non avendo nulla da nascondere, ma alla fine si sono visti costretti a lasciare la Norvegia per non rischiare di perdere anche l’altra figlia: “In Norvegia, è molto chiaro che le famiglie non sono importanti”.
Nel 2015 la psicologa Judith van der Weele ha affermato che molti genitori stranieri sono spaventati dalle pratiche dell’agenzia norvegese e diversi di loro hanno rimandato i propri bambini nei Paesi d’origine proprio per il timore di perderli. Reikeras ha fatto presente che, nella stragrande maggioranza dei casi da lui trattati, i genitori “dicono tutti la stessa cosa”, spesso non sapendo nemmeno perché vengono privati dei loro bambini. Perciò Reikeras, che invita a non abbassare l’attenzione su queste famiglie perché è l’unica speranza che hanno contro un sistema sempre più pervasivo, si dice favorevole all’assistenza dei servizi sociali quando questa serve, ma aggiunge che finora ha conosciuto famiglie normali e si domanda: “Possono tutte queste famiglie […] dire la stessa bugia oppure stanno dicendo la verità e il governo sta mentendo?”. Di certo la Norvegia è un Paese dove il laicismo è ormai radicatissimo, con il cristianesimo sempre più marginalizzato, e a questo si accompagna l’idea dello Stato educatore.
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