Marina Nalesso ci è ricaduta: è comparsa in televisione, e precisamente alla conduzione del Tg2 delle 13.00 di un giorno feriale di inizio estate, con un Rosario al collo, ben evidente sopra una blusa rossa.
La giornalista è, come si diceva, una recidiva, dal momento che aveva già “commesso la stessa colpa” in passato: prima nel 2016 e quindi l’estate scorsa, in quell’occasione durante il Tg1 delle 13.30. Evidentemente la tentata “rieducazione laicista”, esercitata a suon di critiche talvolta anche molto spinose, non le è bastata. Critiche che, naturalmente, non hanno mancato di farsi sentire neanche in questa occasione. Tra tutti, il giornalista Michele Serra, che nella sua rubrica “L’amaca” su La Repubblica ha definito la Nalesso una «mezzabusta confessionale», per poi allargare il discorso e affermare: «Si tratta del Tg2 (quello delle 13), privatizzato dal governo sovranista, con l’implicito logo Dio Patria Famiglia che incombe su ogni inquadratura. Con una compattezza formale che perfino memorabili tigì non blended, come Telecraxi e Telekabul, nemmeno si sognavano […]. Non si potrebbe cortesemente evitare?». Dopo aver quindi esaltato la Francia, dove probabilmente un comportamento simile sarebbe «forse anche reato», Serra conclude con un “cortese” suggerimento, ossia quello di «infilare il crocefisso sotto la camicetta, badando che non urti il microfono».
Insomma, nel Paese culla del cattolicesimo, dove «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume», come cita l’articolo 19 della nostra Costituzione, la legge non è uguale per tutti e per alcuni il crocifisso sarebbe meglio nasconderlo per non rischiare di offendere i paladini di una laicità volta a minare la libertà religiosa. E il paradosso, a ben vedere, è che a sostenere questa posizione sono le stesse persone che si ergono fiere in prima linea quando si tratta di difendere il moltiplicarsi delle opzioni in materia di identità sessuata: in tal caso la tutela dell’identità è sacrosanta, mentre scatta la censura quando in mezzo c’è l’identità cattolica, che sia mostrata da una singola persona o da un crocifisso (come hanno dimostrato i recenti casi di cronaca, per cui in un seggio elettorale toscano il crocifisso è stato prontamente coperto con lo scotch dalla moglie del candidato sindaco del Pd, o ancora a Pieve di Cento (Bo) dove è stata avanzata la proposta di coprire le croci del cimitero).
Eppure, come affermato proprio dalla stessa Nalesso in un’intervista video a Cristiani Today rilasciata nel 2016, «la fede non si vive privatamente, è un controsenso. Se una persona ha fede è quello che è in ogni singolo istante […], la fede non può essere nascosta né nei gesti, né nei simboli». Parole limpide, ispirate a quel «Sì, sì, no, no» di evangelica memoria (cfr. Mt 5,37), di certo indigeste per Serra & Co.
A onor di cronaca è importante comunque sottolineare che in molti – anche semplicemente in virtù del riconoscimento del fatto che l’Italia ha una identità intrinsecamente cattolica o in nome del rispetto della libertà religiosa – hanno appoggiato la scelta della giornalista Rai e le hanno espresso solidarietà per gli attacchi che sta subendo. Tra questi anche alcuni politici, quali Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Lorenzo Fontana.
Il caso della Nalesso, ad ogni modo, oltre a rimettere al centro il tema della libertà religiosa e delle radici cristiane dell’Italia, funge anche da spunto per riflettere su una questione di capitale importanza innanzitutto come singoli fedeli: la scelta, da ripetersi quotidianamente, di dire il proprio «Sì» al Signore. Anche a costo del martirio.
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