In questi giorni di guerra, morte e distruzione in Ucraina, una costante si presenta quasi ogni giorno: è la pressante richiesta del presidente Volodymyr Zelensky, il quale continua a chiedere alle potenze europee ed occidentali sia l’invio di armi, sia la «no fly zone» per rafforzare la resistenza contro l’invasione russa, ordinata una decina di giorni fa da Vladimir Putin.
Iniziando con la «no fly zone» – cioè una zona d’interdizione al volo, pena l’abbattimento di ogni mezzo circolante –, c’è da dire che non la Chiesa cattolica né qualche simpatizzante putiniano, ma l’intera comunità internazionale la sta escludendo, unitamente all’ipotesi di invio di aerei da combattimento. Il presidente ucraino continua a premere («quanti morti vi servono per mettere in sicurezza i nostri cieli?»), ma c’è grande prudenza. Inequivocabili, al riguardo, le parole di domenica della cancelleria di Varsavia: «La Polonia non manderà i suoi jet all’Ucraina, come pure non consentirà di usare i suoi aeroporti. Stiamo aiutando in molte altre aree».
Analogamente, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ai microfoni di France Inter e France Info ha affermato che la chiusura dello spazio aereo dell’Ucraina «nelle circostanze attuali sarebbe considerato come l’ingresso in guerra della Nato e quindi un rischio di una terza guerra mondiale». Perfino il Ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, per nulla tenero a parole in questi giorno con Mosca, ha escluso categoricamente una «no fly zone». «Se noi istituiamo una no fly zone come chiede l’Ucraina», ha dichiarato, «significa mandare i nostri caccia a fermare i russi e se uno solo dei nostri aerei viene abbattuto, scoppia la terza guerra mondiale perché dobbiamo rispondere».
Ecco che allora già una della richieste del presidente Zelensky appare ai suoi stessi alleati impraticabile e pericolosa. E quella dell’invio di armamenti? Come sappiamo, a tale scenario l’Unione europea e la stessa Italia – che nelle scorse ore Mosca ha incluso nella lista dei Paesi ostili (come tutti quelli Ue) – si sono dette favorevoli, approvando disposizioni al riguardo. Ma è una mossa corretta? Prima di rispondere, può essere utile una precisazione: si tratta di una strategia mai messa in essere dal nostro Paese. Neppure, attenzione, contro l’Isis.
A dirlo, interpellato dal quotidiano La Verità, è stato uno che se ne intende: Mario Bertolini, generale già comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze e della Brigata Folgore, nonché Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia. Ebbene, Bertolini ha precisato che per esempio in Somalia come Italia «abbiamo mandato addestratori, uniformi e vecchi camion. Ma mai una mitragliatrice. Eppure hanno continuato a chiedercele. Gli servivano per difendersi dall’Isis».
Ora, basta già questa puntualizzazione per capire come l’invio di armi ad un esercito, per quanto ingiustamente attaccato come quello ucraino, sia una cosa enorme, sostanzialmente senza precedenti e che non è stata attuata, lo si ripete, neppure contro i tagliagole islamisti. C’è però, in aggiunta a ciò, un altro aspetto da esplorare: armare meglio Kiev può servire a fermare Mosca, ribaltando le sorti del conflitto? A questa domanda, in realtà, nessuno risponde positivamente. L’idea che sta alla base dell’invio di armamenti a Zelensky è, semmai, quella di rallentare l’esercito russo affinché Mosca, piegata se non stremata dalle sanzioni, corra presto ai tavoli dei negoziati – e da parte debole. Ma si tratta di un’idea realistica e moralmente accettabile? Pare di no.
In primo luogo, perché questa visione poggia su un’ipotesi ben precisa, e cioè quella che i russi mollino presto la presa. Peccato che i popoli – lo insegna la storia, prima dell’antropologia – non siano tutti uguali, così come i governi; e c’è dunque il rischio che Mosca, prima di arrendersi finita da sanzioni (che in larga parte, peraltro, aveva previsto), possa impiegare settimane, se non mesi. E nel frattempo?
Nel frattempo, inviare le armi che Zelensky chiede significherà morte certa per tanti russi, ma anche per tantissimi ucraini; a meno che non si supponga che dei civili, ragazzini inclusi, possano, improvvisando, competere militarmente con la seconda o terza superpotenza globale. Non solo. Lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica (2309), laddove autorizza e disciplina «la legittima difesa con la forza militare», pone varie condizioni, tra cui una molto chiara: «Che ci siano fondate condizioni di successo».
Sfortunatamente, l’esercito ucraino in nessuna condizione – se non altro per palesi questioni di inferiorità numerica sul campo – può avere «fondate condizioni di successo». Zelensky non vuole o non può ammetterlo, ed è comprensibile, ma la realtà è questa. Il che, per prevenire facili obiezioni, non significa affatto legittimare neppure remotamente la gravissima invasione armata russa, che questo giornale ha già fermamente stigmatizzato.
Ecco che allora né la «no fly zone» – premessa certa alla terza guerra mondiale – né l’invio di armamenti ai valorosi resistenti ucraini, comunque già deciso, si possono considerare chiavi risolutive di un conflitto, per fermare ieri si è tenuto il terzo round di negoziati, al termine del quale un delegato ucraino ha parlato di «piccoli passi avanti sui corridoi umanitari».
In generale, rispetto alla situazione, restano dunque imprescindibili le parole della Chiesa del Santo Padre, che anche domenica è stato chiarissimo nel chiedere non una pace vaga, ma provvedimenti concreti: spazio ai corridoi umanitari, tregua delle armi e intensificazione dei negoziati. Che ieri sono proseguiti, come si diceva poc’anzi, ma che sono da riprendere al più presto, come anche alcune potenze, Cina in primis, continuano a chiedere.
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