Vuoi essere felice? Allora prendi e vai a Messa. D’accordo, posta in questi termini si tratta forse di una semplificazione. Eppure le conclusioni cui pervengono le 56 pagine del report Religion’s Relationship to Happiness, Civic Engagement and Health Around the World non sono poi così diverse. Infatti questo documento a cura del Pew Research Center, think tank statunitense con sede a Washington specializzato in rilevazioni demografiche e demoscopiche internazionali, finisce proprio per sottolineare come la felicità individuale sia positivamente associata alla frequenza ai luoghi di culto.
Più precisamente, è stata effettuata una tripartizione del campione – suddividendolo fra persone attivamente religiose, assidue ai luoghi di culto, quelle meno attive ma che comunque si identificano con una religione e quelli invece non affiliati o non credenti – alla luce della quale, negli Stati Uniti come in molti altri Paesi del mondo, il legame tra partecipazione a una comunità religiosa e fattori quali il benessere individuale e l’impegno civico è emerso con chiarezza. Detta associazione, pur riscontrata in pratica in ogni Paese, è risultata particolarmente limpida negli States.
Nello specifico, negli Stati Uniti il 36% delle persone religiose ha dichiarato di essere «molto felice» rispetto al 25% dei fedeli inattivi o non affiliati. Una differenza di oltre 10 punti percentuali, quindi davvero notevole e che, come si ripete, è stata rilevata in ben altri 25 Paesi considerati, in quasi la metà dei quali, anche se più lieve, è risultata statisticamente significativa. «Tutto questo potrebbe suggerire», argomentano gli autori di questo interessante report, «che le società con livelli decrescenti di coinvolgimento religioso, come quella statunitense, potrebbero essere a rischio del proprio benessere personale e sociale».
Una considerazione, quest’ultima, di non poco conto e meritevole di una riflessione. Non è difatti banale, anzi non lo è per nulla, che un centro di ricerca laico riconosca alla frequenza dei luoghi di culto – non quindi a una generica forma di spiritualità individuale orientaleggiante o in salsa New Age – un ruolo decisivo per una società felice o, quanto meno, equilibrata. Poi è vero che in questa ricerca il Pew Research Center non si è focalizzato su una religione in particolare né, quindi, sui soli cattolici; tuttavia, quanto riscontrato appare comunque interessante nella misura in cui, a ben vedere, va a confermare un corpo di ricerca già molto consistente.
Si allude, qui, a tutte quelle pubblicazioni scientifiche stratificatesi nei decenni scorsi che hanno messo in evidenza come la pratica religiosa sia positivamente associata a maggiore longevità, a minore tassi di depressione, a più stabilità affettiva e a tutta una serie di fattori incoraggianti, rispetto ai quali la ricerca statunitense di cui si è dato poc’anzi notizia, a ben vedere, costituisce solo l’ultima conferma. Rispetto al vivere da atei, la preghiera e l’andare in Chiesa rimangono quindi, sotto tutti i punti di vista, davvero un’altra cosa. Con buona pace dei sociologi e degli antropologi degli anni Sessanta del secolo scorso che pronosticavano, senza peraltro nascondere un certo compiacimento, il definitivo declino di una religione che non soltanto, dopo decenni, rimane ancora viva, ma si conferma sempre più vitale per l’esistenza di ognuno. Altro che «morte di Dio».
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