«Serve una legge sul fine vita, intanto le Asl garantiscano il suicidio assistito». Parola del ministro della Salute Roberto Speranza (foto in alto) che, a pandemia ancora in corso e con tutte le conseguenze che tutt’ora ne derivano, non ha trovato di meglio – rispondendo sulle colonne della Stampa alla lettera di un uomo di 43 anni intenzionato a «morire con dignità» – che affermare e ribadire il suo appoggio alla “dolce morte”.
Un appoggio che il ministro tuttavia dà in modo un po’ confuso, dato che Speranza osserva che «il fine vita è naturalmente uno di quegli argomenti su cui si confronta un pluralismo insuperabile di punti di vista etici, culturali, teorici, religiosi, che in un ordinamento democratico come il nostro non può che trovare la sua espressione politica anzitutto nel Parlamento». Considerazioni, queste, lette le quali non si capisce più bene se per il Ministro, che pure è pro “dolce morte”, l’iniezione letale sia un diritto – e, in caso, che fondamento abbia -, o se la si debba accettare alla luce di «un pluralismo insuperabile di punti di vista»; della serie: ognuno faccia un po’ come gli pare.
In attesa, allora, di leggere sul fine vita parole più chiare – e possibilmente meglio argomentate – da parte del ministro della Salute, conviene intanto volgere lo sguardo altrove per presentare una storia la conoscenza della quale può senza dubbio giovare non solo a Speranza, ma un po’ a tutti, specie in un’estate che vede i radicali raccogliere firme e adesioni per un referendum sull’eutanasia legale. Una storia che, beninteso, non è fantastica, dato che riguarda la vita concreta – e per nulla semplice – di una persona.
Ci stiamo riferendo alla vicenda Xavi Argemí (foto nell’articolo), ventenne catalano che, sostanzialmente da sempre, vive una condizione molto particolare: soffre di distrofia muscolare di Duchenne, malattia neuromuscolare caratterizzata da atrofia e debolezza muscolare a progressione rapida, da degenerazione dei muscoli scheletrici, lisci e cardiaci. Per questo, il giovane è inchiodato al letto o alla carrozzina ed abbisogna di assistenza e cure 24 ore su 24, sette giorni su sette. Una vita d’inferno, dunque, se osservata con i canoni della cultura dominante.
Peccato però che basti leggere quanto Xavi Argemí ha dichiarato in una intervista rilasciata al sito Mercatornet.com per imbattersi in una persona tutto fuorché desiderosa di morire, nonostante le sue drammatiche condizioni, che peraltro è lui stesso a raccontare: «Sono totalmente dipendente dalla mia famiglia per fare qualsiasi cosa fisica 24 ore al giorno […] Devo usare un respiratore durante la notte e quando ho crisi respiratorie. Devo anche nutrirmi attraverso un tubo nell’intestino e posso bere solo liquidi».
Ciò nonostante, il giovane ha una grande, strabiliante voglia di vivere. Anzitutto perché non si considera così diverso dagli altri, pur essendolo in parte: «Sento che fisicamente faccio molte meno cose, ma ho le stesse preoccupazioni o gli stessi entusiasmi che potrebbe avere qualsiasi giovane della mia età. Quindi, mentalmente sono sperimentare quello che provano gli altri». In secondo luogo, egli ha un’energia segreta dentro, che non si può esaurire poiché non dipende da farmaci o macchinari: quella della fede.
«Credo in Dio e la mia fede», racconta infatti Xavi, «è una parte importante del significato della mia vita. Il cristianesimo dà senso al dolore e alla fatica attraverso l’esempio di Cristo. Lui capisce come mi sento». Di qui la posizione del giovane sul fine vita: «Se sono favorevole all’eutanasia? Assolutamente no. Essa non risolve nulla, mentre invece penso che le cure palliative siano una risposta ben migliore per alleviare la sofferenza sia fisica che mentale, affrontando il dolore e dando il supporto necessario alla persona che soffre affinché possa continuare a godersi la vita lasciando che essa segua il suo corso naturale». (a proposito della lettera del Ministro Speranza e il ruolo delle cure palliative “dimenticate” si veda il commento del Centro Studi Livatino, ndr)
Il dinamismo di questo ventenne è inoltre provato dal fatto che ha addirittura scritto un libro, in cui racconta la sua esperienza. Il testo si intitola, emblematicamente, Aprender a morir para poder vivir (Grijalbo, 2021) imparare a morire per vivere. Il sottotitolo è però ancora più bello: Pequeñas cosas que hacen la vida maravillosa, piccole cose che rendono la vita meravigliosa. Che sia il caso, prima che si avventuri in nuove incaute dichiarazioni sul fine vita, di farne avere una copia al ministro Speranza?
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl