La notizia è di qualche giorno fa ma, forse per l’argomento di cui tratta, forse per una sorta di indifferentismo alle vicende umane (e spirituali) oramai sempre più consolidato, non ha trovato altra eco se non su una manciata di media – cartacei e televisivi – dell’Emilia-Romagna.
Eppure la vicenda merita di essere raccontata, e lo facciamo riportando le parole dell’unica fonte di questa notizia, Gianfranco Spadoni, vicepresidente della Lista per Ravenna.
Il 17 agosto, nella camera mortuaria di Ravenna, «dai singoli scomparti riservati alle salme e ai loro familiari e conoscenti», racconta il politico, «si diffondeva un particolare brusio con toni di voce molto alta tale da recare notevole disturbo a coloro che sostavano accanto ai loro cari». Una situazione che si prolunga per diverso tempo, aumentando in intensità. Tanto che, per «un piccolo gruppo, tra cui alcune suore», che recitava «il Rosario accanto al padre deceduto di una di queste, intercalato, da brevi note musicali di preghiera», risultava addirittura «difficoltoso pregare sul familiare della suora».
In tutto questo, che Spadoni paragona a un ambiente simile a quello di un «mercato», a un certo punto arriva l’intervento di un addetto del personale di servizio, il quale «si è avvicinato alle suore invitandole in malo modo a sospendere immediatamente la recita delle preghiere poiché, a suo dire, avrebbero potuto disturbare le altre persone presenti».
Di qui, la denuncia: «Appariva stridente oltreché inaccettabile l’atteggiamento adottato dal personale di servizio che ha dimostrato una palese intolleranza religiosa e la soppressione di una libertà fondamentale, che è quello del diritto di pregare».
LA MORTE CHE NON C’È PIÙ
Questa, dunque, la cronaca e il commento dei fatti, secondo la fonte cui ci riferiamo.
Fatti che, al di là dell’esattezza tutta da verificare con cui sono stati riportati, rimandano un quadro abbastanza chiaro, pur nella sua cupezza, del contesto socio-culturale odierno. Un contesto dove innanzitutto predomina la convinzione che la vita sia solo qui, su questa terra, tanto preziosa, quanto effimera. Il che si porta dietro, come abbiamo visto in maniera lampante anche lungo questi mesi di cosiddetta “pandemia”, un terrore diffuso per la morte. Morte che oggi spaventa per il suo essere segno della “fine di tutto” e che, in quanto tale, è meglio non affrontare – se non in chiave sentimentalistica (e, anche in questo caso, con moderazione) -, occultare il più possibile, rendere iconicamente quale polvere da dispendere come le ceneri della sempre più diffusa usanza della cremazione.
Sintomatico, in tal senso, il racconto della morte che si fa ai bambini e il fatto che molto spesso si decida di non portarli ai funerali dei nonni, o di altri cari defunti: sono gli adulti, gli educatori, quelli che in primis non hanno più parole per stare di fronte alla realtà della morte, che tuttavia è inevitabilmente parte integrante della vita di ognuno.
Certamente, il tutto da viversi nel dolore della perdita ma, in ottica cristiana, anche supportato dalla virtù teologale della speranza. Una speranza che porta ad avere fede nel fatto che la morte segna certamente la fine della vita quaggiù, ma che nel contempo apre alla vita eterna, e quindi alla possibilità di vivere in una gioia senza fine. Ecco cosa simboleggiavano quel gruppetto di laici e suore di Ravenna, con le loro preghiere che hanno così dato fastidio: la possibilità che non tutto finisca qui, sulla terra. Ma questo argomento oggi è scomodo, da rigettare. E questo forse proprio in quanto implicherebbe un necessario cambiamento nel modo di affrontare la morte, propria o altrui, ma anche – e soprattutto – un ripensamento del proprio modo di vivere quotidiano, alla luce del monito ecclesiastico del «Memento mori»: non più spendersi inseguendo passioni o idoli spiccioli, bensì vivere per conquistare la beatitudine eterna.
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