In Kenya abitano più di 40 milioni di persone: di queste, circa un milione e mezzo ha contratto il virus dell’Hiv e un milione è in terapia antiretrovirale. Solo nel 2017 ci sono stati più di 28.000 decessi per complicazioni legate all’Aids.
Alla luce di questi numeri allarmanti, la società non può non interrogarsi su quali possano essere le strategie migliori per combattere il fenomeno e, in questo dibattito, la Chiesa riveste un ruolo fondamentale, anche alla luce del fatto che all’incirca un quarto delle persone affette dal virus Hiv in tutto il mondo vengono curate grazie all’intervento ecclesiastico.
Non sorprende dunque che i vescovi del Kenya, durante un incontro svoltosi il 1 ottobre, abbiano affrontato questa tematica, affermando in maniera decisa che l’uso dei preservativi, oltre a non essere lecito per i cattolici, non è il metodo adatto per prevenire la diffusione dell’Aids.
Questa loro posizione richiama quando già sottolineato da Papa Benedetto XVI durante il suo viaggio apostolico in Africa nel marzo del 2009. Le sue parole avevano sollevato un dibattito internazionale dai toni molto accesi: «Direi», aveva affermato, «che non si può superare questo problema dell’Aids […] con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema». E questo perché, secondo quanto poi dichiarato anche Edward C. Green, direttore dell’AIDS Prevention Research Project al Centro Harvard per gli Studi su Popolazione Sviluppo, è provato statisticamente che c’è una correlazione diretta «fra una maggior disponibilità e uso dei condoms e tassi di infezioni Hiv più alti», per la teoria della “compensazione del rischio”, per cui a fronte di un minor rischio percepito si mettono in campo comportamenti meno attenti, che altrimenti non si terrebbero. Oltre a questo è importante ribadire anche che il preservativo – quando utilizzato bene, ossia non sempre – non protegge al 100% dalla trasmissione del virus Hiv.
Dunque, l’unico approccio sicuro e moralmente lecito per contrastare la diffusione dell’Hiv è, hanno ribadito i vescovi del Kenya, quello di praticare l’astinenza e di informare le persone rispetto alla possibilità di fare dei test per conoscere il proprio stato di salute. «L’uso dei preservativi non fa parte dell’agenda della Chiesa», ha dichiarato il vescovo Joseph Obanyi Sagwe di Kakamega, mentre «esistono molti altri metodi collaudati per prevenire la diffusione dell’AIDS. Non difendiamo approcci che non sono morali». Se la società si fidasse degli insegnamenti biblici, ha quindi chiosato Obanyi, avrebbe già la risposta su come comportarsi e problemi come questo non ci sarebbero.
La posizione dei prelati keniani, fedele al Magistero, non sempre è accettata e accolta neppure all’interno della Chiesa stessa. Solo per citare un caso che aveva fatto clamore, nel 2013 un gruppo di cattolici statunitensi si era mobilitato per promuovere l’uso dei preservativi in Kenya, sostenendo che si trattasse di un approccio lecito, e anzi da consigliare anche ai cattolici. In questo avevano trovato il supporto del dottor Peter Cherutich, vicedirettore del Programma nazionale per il controllo dell’AIDS e dello STI del Kenya, che ha poi anche «sfidato i vescovi sull’argomento, dicendo che l’uso del preservativo è importante per fermare la diffusione dell’Hiv» e ribadendo a sua volta che in coscienza i cattolici possono utilizzare questo metodo contraccettivo. Di fronte a questa provocazione, il vescovo Obanyi non si è scomposto e ha replicato semplicemente che «la Chiesa non può cambiare i suoi insegnamenti e che l’astinenza è la migliore prevenzione per l’Aids». Perfino il The Lancet, in uno studio del 2017, dà ragione ai prelati.
Quello che dunque realmente serve quando si parla di lotta alla diffusione dell’Hiv è soprattutto una corretta educazione sessuale, volta a ribadire i valori della fedeltà e dell’astinenza. E che questo approccio funzioni lo dimostra in maniera eclatante il caso dell’Uganda dove, in virtù di un cambiamento dei costumi sessuali, i tassi di infezione sono diminuiti dal 15% del 1991 al 5% del 2001.
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