Il braccio di ferro tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord non accenna a placarsi. La tensione è particolarmente alta e ha fatto ripiombare il mondo in un clima da Guerra Fredda. Una crisi gravissima, che si inserisce all’interno del più generale problema dei rapporti tra Washington e Pechino. La Repubblica Popolare non sembra al momento intenzionata infatti a ritirare il suo storico appoggio nei confronti del regime di Pyongyang. E questo principalmente per due motivazioni. Innanzitutto la Cina considera la Corea del Nord una sorta di avamposto per contenere l’influenza americana nella regione asiatica. In secondo luogo, il presidente cinese, Xi Jinping, teme che un eventuale crollo del sistema di potere nordcoreano possa esporre il Dragone a flussi migratori pericolosamente armati. Donald Trump, dal canto suo, sta cercando da mesi di convincere Pechino a cambiare strategia ma, al momento, non sembra esserci granché riuscito. Ragion per cui il clima risulta tesissimo. E il mondo resta col fiato sospeso, temendo che una guerra nucleare possa scoppiare da un momento all’altro. Insomma, sembra di essere tornati ai tempi della crisi dei missili cubani, quando John F. Kennedy e Nikita Kruscev arrivarono molto vicini all’orlo dell’abisso.
Anche per questo, la questione nordcoreana pone sul tavolo un problema che sembrava ingenuamente ormai consegnato al passato della Guerra Fredda: quello della proliferazione di armi nucleari. Un problema annoso, che affonda le sue radici in tempi lontani. Dopo anni di rapporti tesissimi tra Stati Uniti e Unione Sovietica, nel 1968 fu faticosamente avviata una fase di pragmatica distensione. In quest’ottica, le due superpotenze siglarono il Trattato di non proliferazione nucleare, cui presero parte anche altri Stati in possesso dell’arma atomica. In particolare, l’obiettivo dell’intesa era quello di perseguire la tutela di tre pilastri fondamentali: disarmo, non proliferazione e uso pacifico dell’energia nucleare. Ad oggi, aderiscono al patto centonovanta Paesi, sei dei quali in possesso di un arsenale nucleare (Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Russia). Ora, se si guarda alle statistiche, il trattato, almeno sotto certi aspetti, sembra aver funzionato. Se nel 1986 – in piena tensione tra Washington e Mosca – il numero complessivo delle testate nucleari era 69.440, oggi la cifra si è drasticamente ridotta, collocandosi attorno alle 20.000 unità. Un risultato indubbiamente ragguardevole che non deve tuttavia indurre ad eccessivo ottimismo. A fronte di numeri più contenuti, l’incognita odierna si sposta infatti su un altro problema spinoso: quello, cioè, di chi detenga l’arma atomica. Una questione non di poco conto, soprattutto alla luce di due elementi complementari che caratterizzano l’attuale situazione geopolitica: la presenza di alcuni cosiddetti “stati canaglia” e le dimensioni sempre più globali della minaccia terroristica.
Non dimentichiamo infatti che tra le potenze nucleari oggi fuori dal trattato figurino due Stati abbastanza pericolosi: il Pakistan (territorio ricco di cellule islamiste) e – soprattutto – la stessa Corea del Nord, che pur facendo originariamente parte dell’intesa, ne uscì nel 2001. Da tempo, Pyongyang sta difatti portando avanti un programma nucleare autonomo a scopo bellico. Un’ambizione che, secondo alcuni, il leader nordcoreano, Kim Jong Un, giustificherebbe col timore di subire la stessa sorte toccata al colonnello Gheddafi (che all’arma nucleare aveva non a caso rinunciato). Un’ambizione rafforzatasi particolarmente negli ultimissimi mesi. Non solo, allo stato attuale, Pyongyang mantiene un atteggiamento spavaldo, sentendosi protetta da Pechino. Ma, secondo fonti vicine all’intelligence americana, sembra possa anche contare sull’esperienza e la tecnologia di un’altra potenza controversa: l’Iran. Elemento interessante, che apre un altro capitolo della questione.
Dopo decenni di odio e accuse reciproche tra Teheran e Washington, la presidenza Obama aveva alla fine deciso per un’apertura nei confronti della Repubblica Islamica. In quest’ottica, nel 2015, venne siglato il nuclear deal: gli Stati Uniti (e altre potenze occidentali) riconoscevano all’Iran la possibilità di sviluppare un programma nucleare con scopi rigorosamente pacifici. L’ex presidente statunitense rivendicò l’accordo come un successo. Ma i repubblicani andarono subito all’attacco, sostenendo che il patto non fornisse adeguate garanzie sulla condotta iraniana. Un’accusa fatta recentemente propria da Donald Trump, il quale ha infatti dato al Congresso la possibilità di stracciare l’intesa. Che resta adesso appesa a un filo.
Insomma, l’America sembra aver riscoperto l’Asse del Male: una vecchia espressione usata da George W. Bush, per indicare un insieme di Paesi ostili agli Stati Uniti, in collaborazione tra loro e pronti ad attuare minacce di carattere nucleare. Una sorta di alleanza che sarebbe andata, appunto, dall’Iran alla Corea del Nord. Insomma, il clima da Guerra Fredda sembra tornato in grande stile. Ed è lo stesso establishment politico americano, in un certo senso, ad alimentarlo. L’ex sottosegretario alla Difesa di Bill Clinton, Joseph Nye, ha per esempio affermato che la crisi nordcoreana potrà essere superata soltanto grazie a “contenimento e deterrenza”. E, sulla stessa linea, si è recentemente collocata la rivista Foreign Policy. Senza dimenticare che anche l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, abbia usato parole di fuoco contro il regime di Pyongyang. Tutto questo, mentre non è ancora ben chiaro come voglia concretamente agire l’amministrazione Trump sulla questione: se continuare ad alzare i toni o prediligere un approccio più distensivo e di stampo kissingeriano.
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