Antonello Venditti e Francesco De Gregori, insieme in tournée, infiammano l’estate italiana. Arene stracolme per ascoltare i capolavori di due settantenni che hanno mostrato come vivere l’arte in modo libero e poetico, senza braccialetti colorati perché senza collare. Più che le date, i sold-out e le scalette, l’interesse vero consisterebbe tutto nel guardare il loro background culturale, nell’indagare la loro maturazione umana, nel capire di cosa si sono nutriti e chi hanno incontrato per arrivare alla libertà di spirito che oggi li caratterizza, e che più o meno consciamente affascina migliaia di ammiratori di ogni età. Eppure, di quella che evangelicamente è «la parte migliore» (e che Manzoni chiamerebbe «il sugo della storia») si parla poco.
A PASSO D’UOMO
Peccato, perché con gli anni si è compreso, ad esempio, che il mondo musicale di De Gregori si comprende davvero solo accostandolo a certa letteratura sapienziale. Il must degregoriano “Passo d’uomo” (che non è solo il titolo di un suo struggente brano, ma anche quello – fortemente voluto dal cantautore – del libro-intervista scritto insieme ad Antonio Gnoli, critico letterario di Repubblica) è un adagio che rimanda al Siracide, al libro dei Proverbi, a quello di Giobbe.
«E vado per la vita /
A passo d’uomo /
Altra misura non conosco /
Altra parola non sono…»
D’altronde, in una vecchia intervista, alla domanda a bruciapelo: «Crede in Dio?», il Principe dei cantautori rispose così: «Se dovessi dare una risposta secca, direi di sì».
LO ZIO “BOLLA”
La ricerca personale di De Gregori, che fa capolino in molte delle sue canzoni, è stata accelerata da una serie di fattori, primo tra tutti la dolorosa vicenda dello zio partigiano suo omonimo. Vicecomandante della Brigata Osoppo, di ispirazione cattolica, “Bolla” (questo il soprannome) fu trucidato a Porzûs dai partigiani “rossi” filo-titini. In seguito, quasi a infierire sulla candida storia del patriota, la figura di Francesco “Bolla” De Gregori sarà finanche umiliata: Pertini concesse la grazia al suo assassino, latitante, e per sua stessa ammissione mai pentito del gesto. Per uno strano caso del destino zio “Bolla” venne ucciso insieme a Guido Pasolini, fratello di quel Pierpaolo a cui il cantautore ha dedicato la bellissima “A Pa’”, brano modellato sul capitolo 6 di Matteo: “Voglio vivere come i gigli dei campi..” (che non lavorano e non filano eppure neanche re Salomone vestiva come loro), «come gli uccelli del cielo campare» (che non seminano e non mietono ma c’è chi procura loro il cibo).
SE IL PRINCIPE NON CI CREDE PIÙ
Queste ed altre delusioni hanno progressivamente allontanato De Gregori da posizioni ideologiche cristallizzate. Anzi, proprio durante i festeggiamenti per i 40 anni del ‘68, l’artista ha scritto quello che può essere considerato il suo definitivo addio a una sinistra ipocrita e piena si sé. Nel brano, che non a caso si chiama “Celebrazione”, De Gregori si libera a tempo di rock da certi ingombranti “posti” del suo passato.
«Ci sono posti dove sono stato /
Mi ci volevano inchiodare /
Ai loro anni ciechi e sordi /
loro amori raccontati male /
E dove portano quelle scale /
Ma tu davvero lo vuoi vedere? /
Chi vuole scendere scenda pure /
Ma chi c’è stato non ne vuole più sapere..».
De Gregori sa che certe “scale” portano ad un conformismo che fa a cazzotti non solo con l’arte ma anche con l’onestà intellettuale modello base. Oggi, probabilmente, le scale di cui il cantautore “non vuole più sapere” sono quelle che nel gioco berizziano di Repubblica accostano la “M” di Meloni a quella di Mussolini; ieri sono state quelle che hanno permesso a Giorgio Bocca di scrivere che suo zio “Bolla” era stato «l’uomo sbagliato al posto sbagliato» (questo ed altro, compreso un blitz in casa Bocca per chiedere spiegazioni, De Gregori lo racconta con dolore ad Antonio Gnoli nel libro-intervista uscito per Laterza).
L’INCHINO AI PONTEFICI
Sul Corriere, in una rumorosissima intervista ad Aldo Cazzullo (che commentammo qui), De Gregori definì l’elezione di Bergoglio «la più bella notizia degli ultimi anni». Aggiungendo un lusinghiero giudizio anche su Joseph Ratzinger («Intellettuale di altissimo livello»), nonché sul suo discorso intorno a fede, ragione, logos e Islam che 2006 scatenò la tempesta perfetta («Ratisbona fu un discorso importante»). Siccome a Cazzullo il cantautore disse anche molto altro («Pensare di eliminare Berlusconi per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra. Meglio sarebbe stato elaborare un progetto [..] invece di gingillarsi a chiamarlo Caimano»), per certa sinistra quell’intervista suonò come lesa maestà, per cui si trasformò immediatamente in «una lista di luoghi comuni» scritta da chi fa una musica «noiosa e sopravvalutata».
MOMENTI DI GRAZIA CON MONS. CAMISASCA
Che dire di Antonello Venditti? In lui una fede reale, seppur combattuta, ha convissuto per anni col milieu culturale progressista che negli anni ’70 ha fatto pochi prigionieri. Almeno fino ad uno degli incontri più importanti della sua vita, quello con monsignor Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo e già vescovo di Reggio Emilia.
L’incontro tra i due è stato fulminante. Venditti lo descrive così: «Mi portava spesso a cena da famiglie per me sconosciute [..] Senza che io me ne accorgessi e con grande semplicità, don Massimo mi fece entrare in un mondo nuovo [..] ma che era già in qualche modo presente dentro di me». In Dilexit Ecclesiam. Servitori della Comunione, una serie di scritti in omaggio ai 75 anni di mons. Camisasca, Antonello Venditti aggiunge particolari fortissimi, tutti da godere; ma come sintesi può forse bastare questo passaggio: «La luce che mi ha attraversato fin dal nostro primo incontro è stata l’inizio di un’amicizia che non è più finita. Abbiamo vissuto tanti momenti di grazia assieme».
Parte della libertà intellettuale del “cantore primo di Roma” nasce probabilmente anche da questo sodalizio, stretto e affettuoso, fatto di tante domande “disordinate” e di risposte che all’artista hanno squadernato prospettive nuove e “gustose”. Nel 2016, in un’intervista a Lucia Bellaspiga, nello sforzo di farle visualizzare ciò che aveva appena chiamato «falsa democrazia», Venditti prima citò il “caso Barilla” (cognome dal quale il 99% degli artisti si tiene lontano), e poi, senza giri di parole, definì l’utero in affitto «una pratica brutale». «Oggi siamo al punto che diciamo “ho preso l’utero in Indonesia”, come se attorno non ci fosse una donna, come fosse assemblata», questo un passaggio di quel dialogo.
SARA E IL SUO BAMBINO
Chissà se i fan di De Gregori e di Venditti sanno che entrambi i loro beniamini sono pro life a completo servizio della vita. «Sulla difesa della vita De Gregori è oggi su posizioni convintamente antiabortiste», così Paolo Vites, giornalista musicale e amico di vecchia data dell’autore di “Rimmel”. Sul tema, Venditti ha scritto “Sara”, brano cult su una studentessa in attesa di un figlio, ripreso nei giorni scorsi da una brillante e provocatoria lettera apparsa su Avvenire. Reduce dal concerto dei due artisti, la bolognese Gabriella Zucchi scrive: «Quando è partita la melodia di “Sara” [..] mi sono improvvisamente rivista adolescente inferocita, anche un po’ intransigente: “Guarda un po’ ’sto maschio egoista che si fa i fatti propri (mi devo laureare) e non si occupa del bimbo che Sara aspetta, pure figlio suo». Il proseguo della lettera rende merito a Venditti oltre ogni ragionevole dubbio: «Subito un altro raggelante pensiero sul presente mi ha raggiunto: quale Sara, ancora sui banchi di scuola, potrebbe oggi davvero riuscire a pensare che “se ci crede, il suo bambino nascerà”? Quale canzone terrebbe aperta per lei, giovanissima donna, questa possibile scelta? Il pensiero dominante ha già pronta, “per il suo bene”, un’unica e sola risposta: si chiama aborto».
«RESISTE SOLO CHI PIÙ HA FEDE»
Dalla «chance alla vita» data «alla creatura in arrivo dentro una storia storta eppure tenera», (così il direttore Marco Tarquinio), oggi Antonello Venditti si spinge oltre. A Lucia Bellaspiga, che con un artificio retorico chiedeva al cantautore come chiudere l’intervista, l’autore di “Roma Capoccia” risponde in modo schietto e cristallino: «Con un augurio di Buona Pasqua. Si può ancora dire? [..] Si cerca lo scontro nel nome di un laicismo che manipola il mondo e vi mette al centro l’uomo, ecco perché l’umanità sta cambiando e diventa materialista, nichilista, agnostica. A questa mutazione genetica resiste solo chi più ha fede, perché le radici profonde non si estirpano. E le radici ti portano a Dio».
Se l’uomo può non riuscire a cogliere fino in fondo ciò che il cuore gli domanda, il vero artista ha il dono di cogliere il bello, che è sempre splendore del vero. Di fronte all’incanto con cui De Gregori e Venditti, a passo d’uomo, raccontano la vita, non è inutile immergersi nel pensiero che ha partorito la loro visione del mondo (insieme a molti capolavori). Un pensiero sapiente e ultimamente cristiano.
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