Il Papa, in un’intervista a La Croix, ha dichiarato molto apertamente che i funzionari hanno diritto di sollevare obiezione di coscienza alle unioni civili: “Lo Stato deve anche saper accettare le critiche”.
E il problema dell’obiezione di coscienza – che la legge Cirinnà non prevede – è solo una delle tante e gravi preoccupazioni della gente vera, a prescindere dalle élite giubilanti che sono state mostrate
Con la legge Cirinnà si è data un’ulteriore spallata alla famiglia naturale e all’istituto del matrimonio e, di conseguenza, anche alla possibilità di avere in Italia una primavera demografica.
In questo articolo vorrei provare a mettere in luce – senza la pretesa di essere esaustivo – alcune incongruenze e contraddizioni morali e giuridiche insite nella legge sulle unioni civili.
Le recenti polemiche tra il ministro per gli Affari regionali con delega alla Famiglia, Enrico Costa (si veda qui), e la senatrice Cirinnà circa l’applicazione della legge sulle unioni civili dimostrano come il punto critico sia quello delle adozioni da parte delle coppie omosessuali.
Ad li là dei trionfalismi, delle coccarde arcobaleno ostentate come trofeo e delle feste in tondo, il testo della legge è figlio dei compromessi di una politica di basso profilo morale. A coprirne il vuoto di responsabilità, prima ancora che di valori, riesce a malapena la solita retorica della lotta contro le discriminazioni e dell’autodeterminazione dell’individuo.
Ci si guarda dal definirlo matrimonio, attestandosi su un’etichetta politicamente corretta (‘unioni civili’), che mette in sé il meglio, o il peggio, di quel che resta del laico pensare. Si procede, di fatto, e a colpi di clava politica, all’abbassamento del matrimonio a opzione fra diverse possibili. Anche linguisticamente esso diventa un fenomeno relativo che, per potersi accreditare, ha bisogno di specificarsi. Pertanto, si dice: matrimonio eterosessuale, matrimonio naturale etc…
Come una foglia di fico resta a proteggerne l’eccedenza, rispetto al suo concorrente civile, l’implicazione naturale che esso ha con la fecondità, ma proprio questa si tenta e si tenterà di sollevare in nome della parità dei diritti e del rispetto dei diversi orientamenti sessuali.
Il fatto è che il matrimonio da sempre ha avuto la funzione fondamentale di preservare, trasmettere, custodire la vita. Lo evidenzia il termine latino matrimonium, che è composto dalle parole mater (madre) e munus (compito), a dire che esso era compito della madre e, quindi, connesso alla maternità. Ed era, a sua volta, chiaro che discendeva dall’unione stabile, costituita, riconosciuta, tra un uomo e una donna, in quanto unica unione fertile ed unica unione in grado di garantire una nascita civile dell’individuo.
Lo si riscontra anche nella nostra Costituzione che, dopo aver riconosciuto “i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29), la mette in relazione con la procreazione e con “il dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio” (art. 30). Su cosa poggi la famiglia è poi dichiarato con estrema chiarezza: è “fondata sul matrimonio”; dunque, su un’istituzione ben precisa, collaudata da millenni di storia, sia pure con accezione diversa, ma sempre come fatto pubblico, celebrato, riconosciuto e naturalmente fecondo.
Ma il matrimonio, oggi che l’emancipazione sessuale ha portato a separare le relazioni sessuali dalle coniugali, è stato ridotto a mero riconoscimento di un legame affettivo quasi disincarnato. E’ stato poi ulteriormente impoverito quando il legame con la procreazione è stato allentato. Oggi ci si unisce, infatti, dilazionando, allontanando o rifiutando la procreazione, oppure si procrea negli ambienti asettici della fecondazione medicalmente assistita, senza unirsi.
Il nido familiare, già luogo di una relazione affettiva forte, densa di impegno e di condivisione, è stato demolito. La legge sul divorzio lo ha sancito. Quella sul divorzio breve ha, infine, ridotto i tempi di scioglimento (da 3 anni a 6 mesi, se consensuale), connotando sempre più il matrimonio come un prodotto di facile consumo.
Quanto alla fecondità, già negli anni ’60 e ’70 la decisione di avere o meno un figlio era stata attribuita all’esclusiva determinazione della donna (“L’utero è mio e me lo gestisco io!” era lo slogan delle femministe). Poi, in ragione delle nuove possibilità offerte dalla fecondazione artificiale, la fecondità è stata rinviata alla sfera del calcolo individuale (“Il bambino quando lo voglio e come lo voglio!”).
La fecondazione artificiale ha reso infatti possibile una fecondazione programmata e monitorata nei laboratori e “una genitorialità senza corpo, senza sesso e senza relazioni naturali” (Eugenia Roccella, Tempi del 7-7-2014). La fecondazione eterologa, in particolare, ha prodotto un ulteriore stravolgimento, non solo perché ha permesso a chi in passato ne era escluso di accedere alla fecondazione, ma anche perché ha ulteriormente disgiunto il significato unitivo da quello procreativo. In tale contesto, è potuta avanzare l’idea innaturale di poter fare figli senza l’altro sesso.
Contestualmente, la pretesa di avere figli ad ogni costo è assurta a diritto. Si è giudicata, quindi, discriminatoria non solo ogni distinzione fra coppie fertili e infertili, ma anche fra coppie eterosessuali ed omosessuali. Le restrizioni alla fecondazione eterologa (legge 40/2004 sulla procreazione assistita) sono via via cadute in ragione di alcune sentenze della Magistratura.
Ma, equiparato il figlio all’oggetto di un bisogno, lo si è immesso nel punto di raccordo fra una logica economica, perché un bisogno ha un costo di soddisfazione, ed una logica giuridica, per cui, se esso è un bisogno primario, sarebbe discriminatorio ammettere alcuni ed escludere altri dalla sua fruizione. Siamo al figlio rivendicato come un diritto, al diritto al figlio, ad una mostruosa ‘cosificazione’ del bambino.
Con il testo definitivo della legge sulle unioni civili si è addivenuti, infine, ad un compromesso in materia di adozione, per cui la stepchild adoption è stata stralciata e la questione rinviata alla disciplina generale sull’adozione. Ma, se è vero che la legge sulle adozioni non permetterebbe ad una coppia gay di adottare, alcune recenti sentenze lo hanno già permesso. In particolare, la sentenza n. 162 della Corte Costituzionale del 9-4-2014 giudicava incoercibile la determinazione di avere figli da parte di una coppia, indipendentemente dalla sua omosessualità. Se, infatti, si riconosce a due individui dello stesso sesso di essere uniti civilmente, non si vede perché si debba poi negar loro la possibilità di essere genitori senza incorrere in una discriminazione.
D’altra parte, tutti gli ordinamenti giuridici del mondo riconoscono che l’istituto dell’adozione esiste per salvaguardare l’interesse del bambino ad avere un padre e una madre. La Convenzione de L’Aia sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale (art. 1) nonché la Convenzione relativa ai diritti del bambino (art. 21) lo valutano prioritario nei procedimenti adottivi. Tant’è che, proprio perché l’adozione prende come modello la famiglia naturale, i genitori adottivi devono essere in età di procreare e l’adozione deve essere definitiva.
Con la coniazione di un modello alternativo di famiglia e di genitorialità si vanno invece a creare situazioni non corrispondenti alla realtà naturale e biologica, che violano il diritto del bambino ad avere i riferimenti sicuri di cui ha bisogno per crescere. Le difficoltà che hanno i legislatori nell’adeguare la terminologia a queste inconsuete pretese dimostrano l’innaturalezza, l’assurdità, per non dire la mostruosità, di queste rivendicazioni: non più Padre e Madre o Papà e Mamma, ma Genitore 1 e Genitore 2. Perché si tratta di dare una famiglia ad un bambino, e non viceversa. Né spetta al bambino di adeguarsi alle scelte di vita affettiva dei genitori.
Ormai il “potere degli adulti sui bambini” non ha più regole e remore. “Non basta più che i bambini siano in balia delle fluttuazioni sentimentali degli adulti, che siano separati dalle loro madri o padri dal divorzio; adesso gli adulti vorrebbero falsificare la loro filiazione all’estremo per soddisfare i propri desideri”, ha scritto Grégor Puppinck, direttore del Centro Europeo per la Legge e la Giustizia (traduzione dal francese da Paul De Maeyer).
La questione decisiva si gioca, quindi, sul diritto del bambino ad avere un papà ed una mamma, perché “ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna. (nota su Famiglia e unioni di fatto del 28 marzo 2007 del Consiglio Episcopale Permanente della CEI), perché la “genitorialità per tutti” altro non è che “una finzione incaricata di occultare, né più né meno, uno dei genitori biologici del bambino” (così la storica francese Marie-Josèphe Bonnet, femminista e fondatrice del Fronte omosessuale).
La battaglia di civiltà del futuro prossimo venturo atterrà, quindi, alla questione della vita umana “in tutta la sua drammatica urgenza e serietà radicale” (B. Forte). Né potrà essere elusa in nome di compromessi politici. E’ a partire da quella battaglia che avrà un senso anche la presenza dei cattolici in politica, chiamati a dare voce a chi non ha voce, a scuotere l’assuefazione che si è instaurata nelle coscienze di fronte alla miseria di una presunta civiltà e delle sue ordinarie crudeltà verso i più indifesi: gli embrioni, i nascituri, i bambini, gli anziani.