Secondo il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, in futuro si dovrà arrivare per forza di cose a un unito rito romano della Messa. O meglio: a una fusione graduale delle due forme che, dalla pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum, definiscono il rito romano: quella ordinaria, nata dalla riforma liturgica e dal nuovo Messale di Paolo VI e quella straordinaria, chiamata impropriamente Messa in latino.
«Non è altro che la stessa linea di Benedetto XVI – ha detto Koch alla rivista Herder Correspondence – che il Papa emerito aveva in mente».
L’idea non è vecchia e soprattutto chiama in causa quell’espressione, Riforma della riforma, che negli anni ha fatto rizzare i capelli ai liturgisti più conciliaristi, nel senso di fedeltà alla spirito del Concilio Vaticano II. Il più delle volte una scusa per una continua sperimentazione che oggi ci consegna molte liturgie creative e lontane dal Mistero.
Il porporato ha proseguito che «non c’è da sperare altro, a lungo andare non si può rimanere con la coesistenza con le due forme. L’Eucarestia è la celebrazione centrale dell’unità della Chiesa, non può avere questo significato se permangono dispute o conflitti su di esso». La modifica, o accorpamento, però, stando a quanto ha riferito il cardinale «richiederà molto tempo e pazienza». Lo stesso Ratzinger, che si espresse sulla faccenda del rito unico nel 2003, due anni prima di diventare Papa, disse che «non si tratta di una nuova riforma liturgica dato che la stessa richiede un processo di accrescimento».
Nel libro intervista con Peter Seewald Dio e il mondo, disse che «se si sviluppa una specie di movimento dall’interno e non si impone semplicemente dall’alto della Gerarchia, allora arriverà». In sostanza: secondo Benedetto XVI – e anche Koch – per arrivare a una sorta di riforma unica e condivisa, tutto deve partire dal basso.
E’ una posizione interessante e promettente ed è significativo che proposte come queste arrivino da uomini forti vaticani, dopo che per molti anni sul destino della Forma straordinaria è calato come una specie di silenzio e di tacito fastidio. Il silenzio a cui è stato “costretto” il cardinal Sarah sull’argomento, che del culto divino è Prefetto, è emblematico.
Non più tardi un mese fa, la Congregazione per la Dottrina della fede ha diffuso un questionario ai vescovi americani sull’applicazione del Motu Proprio SP. In molti hanno sospettato un tentativo di “attacco” alla cosiddetta Messa in latino. Qualunque siano le intenzioni però, è chiaro che, per non far morire il patrimonio di sacro e di teologia della cosiddetta Messa antica, bisognerebbe capire da che punto di forza verrebbe fatta la “fusione”: a favore o contro la Messa antica? Valorizzandone il portato in termini di sacro, silenzio, utilizzo della lingua latina, orientamento liturgico, preghiere o abbellendo semplicemente il nuovo rito prima di staccare definitivamente la spina?
Fusione o no, è chiaro che, come suggeriva Ratzinger, la crisi della Chiesa di oggi è una crisi della liturgia, ergo, le responsabilità sono individuate da tempo. Ma anche le ricette per curarsi. Si tratta soltanto di decidere di intervenire e il Summorum Pontificum era una delle medicine possibili. Sempre Ratzinger ricordava che la liturgia non deve diventare il «terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche». Come a dire: la riforma della liturgia possono farla solo i santi, non le commissioni teologiche. Sarà tempo?
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