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Un piano dell’«Aiuto alla Chiesa che Soffre» per vedere la Croce tornare sui tetti dei cristiani iracheni
NEWS 29 Settembre 2017    

Un piano dell’«Aiuto alla Chiesa che Soffre» per vedere la Croce tornare sui tetti dei cristiani iracheni

di Alfredo Mantovano
su «Tempi»

 

Se manca l’antenna parabolica sul tetto del condominio nel quale abitiamo è una tragedia; se c’è e viene giù per un acquazzone partono in tempo reale le telefonate all’amministratore o al portiere perché sia rimessa. Ci sono luoghi al mondo nei quali ciò che sovrasta la dimora capta canali diversi da quelli tv: la foto pubblicata in questa pagina ritrae qualcuno dei pochi container rimasti a Erbil, realizzati nell’estate 2014 per dare riparo ai cristiani costretti alla fuga da Mosul. La Croce c’è, sta sul tetto o davanti all’ingresso. E resta, anche all’interno, se dai container ci si sposta a una delle tante abitazioni più stabili prese in affitto da Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs), che oggi ospitano larga parte dei profughi cristiani. In un territorio nel quale la presenza dei cristiani risale alla predicazione apostolica, il simbolo centrale della nostra fede – quello che da noi è da tempo estromesso da scuole e luoghi pubblici – ha senso al punto da essere collocato nel sito più visibile.

L’Occidente e l’Europa mostrano di non preoccuparsi della perdita enorme che la riduzione dei cristiani in Siria e in Iraq, che conosce una progressione geometrica dall’inizio degli anni Duemila ed è divenuta ancora più pesante con l’espansione dello Stato islamico, provoca non soltanto sul piano religioso, ma pure sul piano civile: lì i cristiani hanno sempre costituito le élite, ciò che fa da traino alla comunità. Oggi vi è la concreta possibilità di invertire la tendenza: nel marzo 2017, dopo la liberazione della piana di Ninive e la sconfitta dell’Isis, Acs ha promosso e coordinato la firma di un accordo fra i pastori di tre Chiese irachene. In virtù di esso è stato costituito il Comitato per la ricostruzione, un vero e proprio piano Marshall per quell’area, il cui costo stimato è di oltre 250 milioni di dollari.

Vi sono ancora 12 mila famiglie cristiane censite, circa 95 mila persone, che vivono quali sfollati interni a Erbil e nelle aree limitrofe. Con la liberazione dei loro villaggi, molti desiderano tornare alle loro case: in tanti lentamente fanno rientro per stimare i danni e considerare la possibilità di ricominciarvi a vivere.

La distruzione operata dai terroristi ha lasciato 13 mila abitazioni in nove villaggi con gravi danni, incendiate o del tutto distrutte. Tutti gli edifici sono stati saccheggiati. E questo per non dire dei problemi di sicurezza nei villaggi e della devastazione delle reti elettriche e idriche e delle strade.

Il 28 settembre a Roma, all’Università Lateranense, si è tenuta una Conferenza internazionale di presentazione del progetto di Acs Iraq, “Ritorno alle radici”, cui parteciperanno, fra gli altri, il patriarca caldeo di Babilonia Louis Raphaël I Sako, il nunzio apostolico in Iraq e Giordania monsignor Alberto Ortega Martín, l’arcivescovo siro-cattolico di Mosul Yohanna Petros Mouche, il vescovo caldeo di Alqosh Mikha Pola Maqdassi, monsignor Nicodemus Daoud Matti Sharaf, metropolita siro-ortodosso di Mosul, Kirkuk e del Kurdistan, e monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo siro-ortodosso della Chiesa di Antiochia.

Aiutiamoli davvero a casa loro
Il piano non ha solo un valore umanitario; fra le sue ricadute:

a) non essere indifferenti per le sorti della libertà religiosa dei nostri fratelli nella fede dell’Iraq: san Giovanni Paolo II ha insegnato che la libertà religiosa è il termometro di tutte le altre, se è compromessa le altre ne risentono;

b) contribuire alla prevenzione del terrorismo prosciugando il contesto di coltura del radicalismo islamico: il ritorno della pacifica comunità cristiana nella piana di Ninive è un passo decisivo per la stabilizzazione socio-culturale dell’area;

c) attenuare la pressione migratoria, poiché i cristiani iracheni desiderano continuare a vivere nelle loro terre. Si è detto tanto – anche a sproposito – “aiutiamoli a casa loro”. Oggi lo si può fare. Se queste famiglie tornano nelle loro abitazioni alla fine si riduce la tensione sociale delle nazioni che ricevono migranti nel proprio territorio. Ne riparleremo.