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Un pastore sociale perché Cristo regni
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3 Gennaio 2018

Un pastore sociale perché Cristo regni

Da 66 anni ininterrottamente, ogni 2 di gennaio nella chiesa Cattedrale di Andria si celebra una Santa Messa per ricordare le virtù umane e spirituali del Venerabile mons. Giuseppe Di Donna. Nel 1956 iniziò il processo di beatificazione. Nel 1998 la Conferenza episcopale pugliese ha inviato a papa Giovanni Paolo II la richiesta del riconoscimento delle virtù eroiche di Giuseppe Di Donna, le quali sono state riconosciute da papa Benedetto XVI, nel concistoro del 3 luglio 2008, con il decretum super virtutibus allorché è stato dichiarato venerabile.

Ricordato spesso per il suo impegno sociale, il vescovo Di Donna fu un uomo attento alle istanze dei poveri e della vita civile soprattutto nel periodo difficile che va dal 1946 al 1950. Sotto l’aspetto magisteriale ha pubblicato la lettera pastorale “L’Edificio sociale” in cui ha sintetizzato la dottrina sociale della Chiesa e ne ha indicato le ricadute dottrinali, sociali e anche politiche nel suo tempo e per i suoi fedeli. Il 1 maggio 1946 pubblicò un piccolo scritto, quasi un catechismo, in forma dialogica, “Sulla vera natura del Comunismo”, composto da 24 domande e relative risposte dove metteva a nudo la natura dell’ideologia comunista dichiarandola anticristiana. A quest’opera importante sul piano dottrinale ha affiancato una attività di promozione di opere sociali: Acli, patronati di assistenza, cooperative per i braccianti, asili, orfanotrofi, scuole, ecc.

«Fu in questo complesso periodo storico», riporta Andrialive.it, «che mons. Di Donna diede impulso all’associazionismo dei lavoratori cattolici, non tanto per sottrarli alle organizzazioni comuniste quanto per formare uomini di fede capaci anche di diventare essi stessi strumenti di apostolato. Fu compiuta allora una scelta che dopo susciterà qualche polemica all’interno del clero. Mons. Di Donna aveva intuito, fors’anche per la sua esperienza missionaria [era stato missionario in Madagascar, ndr], che gli uomini, sia adulti che giovani e persino ragazzi avevano bisogno di un proprio ambiente specifico per apprendere, per aprirsi, per aiutarsi e incoraggiarsi, per farsi forza. Di qui il suo incoraggiamento a veicolare gli uomini verso le associazioni cattoliche di lavoratori, i giovani verso l’oratorio salesiano, i ragazzi negli oratori parrocchiali che egli incoraggiò a realizzare tanto che nel 1949 decretò san Giovanni Bosco patrono degli oratori parrocchiali. (…) allora il problema era che gli uomini e giovani non frequentavano proprio le chiese e quello fu un mezzo per attrarli, educarli e farli innamorare della propria fede. E siccome quel Vescovo organizzava il tutto dialogando continuamente con il suo Principale nascosto nel Tabernacolo, possiamo oggi affermare che quella iniziativa fu provvidenziale per la pace sociale in città. (…) Era proprio davanti al Tabernacolo che egli passava le ore che l’ansia pastorale gli lasciava libere. Al culmine della crisi del 1946 uscendo proprio dalla cappella, alle suore che gli consigliavano di lasciare l’episcopio per rifugiarsi in seminario: qui i comunisti ci ammazzano tutti, dissero le poverette. E che paura avete, rispose il vescovo, andiamo diritti in paradiso, non è quello che vogliamo?

Ed eccolo il giorno dopo solo, con il cameriere e una sacca di viveri, attraversare la città per recarsi nella sede dei Combattenti dove un gruppo di rivoltosi aveva portato 18 carabinieri fatti prigionieri. Nel vederlo solo e inerme la gente ebbe paura per la sua vita. Ma egli era tranquillo: sapeva di non essere solo. Appena giunto distribuì i viveri ai carabinieri e agli insorti: per lui erano tutti uguali, tutti figli. Conquistò il rispetto che si deve a un padre. Ai malcapitati carabinieri non fu torto un capello».

Si dichiarava convinto di essere sacerdote e vescovo “non sibi sed populo” e che la sua missione è: «fare regnare Gesù Cristo nelle coscienze, nelle famiglie, nella società, amando Dio e il prossimo».

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