In Umbria l’aborto farmacologico non potrà più avvenire in day hospital, bensì sarà necessario un ricovero ospedaliero di tre giorni. A deciderlo la Giunta guidata dalla leghista Donatella Tesei, su proposta dell’assessore Luca Coletto, con un’interpretazione in chiave restrittiva della possibilità di scelta rispetto all’organizzazione da adottare consentita dalla legge 194 sull’aborto.
Sommersa dalle critiche del fronte abortista per aver rivisto la decisione presa mentre era presidente Catiuscia Marini, nel 2018, la Tesei ha difeso la decisione presa: «Non è assolutamente un passo indietro. La libertà di una scelta sofferta, come quella dell’aborto, rimane. Ma c’è una maggiore tutela per la salute della donna». Un’affermazione, questa, che mette bene in evidenza le luci e le ombre di questa scelta di certo coraggiosa e in positiva controtendenza: pur trattandosi infatti di una decisione che si configura come un primo piccolo passo nella direzione giusta, di strada da fare ce n’è ancora molta. E questo sia nei confronti del nascituro, il solito grande assente del dibattito, sia nei confronti della donna stessa.
LA RU486: CONTRO LA DONNA
Arrivata in forma sperimentale in Italia nel 2005, per essere poi diffusa su scala nazionale nel 2009, la Ru486 è una possibilità che le donne italiane hanno fino ad ora dimostrato di non prediligere, a differenza di quanto avviene in altri Paesi. A livello concreto, l’aborto farmacologico consiste nell’assunzione di due componenti: il mifepristone, uno steroide sintetico atto a interrompere la produzione di progesterone, impedendo in tal modo all’embrione di crescere e svilupparsi per mancanza di principi nutritivi, e il misoprostol, una prostaglandina che rilassa il collo dell’utero e induce le contrazioni, permettendo l’espulsione del sacco amniotico contenente l’embrione.
Guardando solamente alla donna, senza quindi considerare anche il primo e inalienabile diritto alla vita del nascituro, si possono tuttavia evidenziare le principali criticità di questa metodologia abortiva. Innanzitutto, i dati raccolti negli anni dimostrano la pericolosità di questa pratica per la salute della gestante, che arriva addirittura a rischiare la sua stessa vita. Anche le conseguenze psicologiche sono importanti, soprattutto alla luce del fatto che più della metà delle donne arriva a riconoscere l’embrione abortito (a 6 settimane di gestazione il bimbo è grande circa 10mm) e al fatto che, se il tutto avviene tra le mura domestiche, la donna viene lasciata sola nell’incertezza sul come e quando (e se!) avverrà l’aborto. Esattamente quello che contestavano le femministe – in questo frangente sonoramente zitte – negli anni Settanta, chiedendo l’aborto «assistito» e «sicuro». Risulta significativo, in tal senso, il fatto che in Usa la Ru486 sia stata rinominata «Kill Pill» e in Cina «farmaco incubo».
Oltre a questo, non va dimentica il dato di influenza culturale legato alla pratica, che vede l’aborto sminuito e banalizzato nella sua portata omicida.
UN PROCESSO REVERSIBILE
Provando a fare un passo oltre, è possibile prendere in considerazione un altro aspetto, purtroppo poco noto: l’aborto farmacologico è reversibile, se la scelta di propendere per la vita viene presa nel lasso di tempo che intercorre tra la somministrazione del misoprostol e quella del mifepristone. I dottori George Delgado e Matthew Harrison hanno infatti messo a punto l’“Abortion Pill Reversal”, che prevede una somministrazione alla donna di una massiccia dose di progesterone, ossia l’ormone che lo steroide sintetico contenuto nel Misoprostol era andato a bloccare: un trattamento che, per le ire degli abortisti, ha una percentuale di successo del 60-70% e che ha già contribuito a salvare centinaia di vite umane.
Alla luce di questo, la speranza è che la Regione Umbria possa affiancare alla decisione presa rispetto al day hospital, peraltro anche in questo frangente in piena ottemperanza alla iniqua legge 194, il fatto che, soprattutto allorquando non sia già stato fatto, la donna nelle giornate di degenza venga accompagnata e supportata al fine di «superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (art. 2, comma D).
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