L’attesa notizia, che ha preso a circolare domenica poco dopo l’ora di pranzo, è risultata fondata. Ieri alle ore 12:00 locali, nella regione di Gomel, in Bielorussia, hanno preso il via i negoziati al confine tra Bielorussia e Ucraina, considerati da molti il passaggio chiave per porre fine al conflitto iniziato la scorsa settimana. A guidare la delegazione ucraina, Oleksii Reznikov, il ministro della Difesa fedelissimo del presidente Volodymyr Zelens’kyj, mentre alla testa della controparte russa sedeva Vladimir Medinsky, consigliere di Putin, ex ministro della Cultura; anche se nelle foto diffuse non compare, secondo il Jerusalem Post l’oligarca Roman Abramovich, su richiesta di Kiev, sarebbe stato in Bielorussa per partecipare ai negoziati.
Il dato rilevante è stato quello della conclusione dei negoziati di cui si è avuta notizia, in Italia, poco dopo le ore 17. Da quanto è dato sapere, infatti, le delegazioni russa e ucraina hanno concluso l’incontro per poi ripartire per le rispettive Capitali per consultazioni; il che è da ritenere complessivamente un segnale positivo perché, se da un lato significa che un accordo non è stato raggiunto, dall’altro vuol comunque dire che la trattativa non è naufragata.
Secondo il consigliere presidenziale ucraino Podolyak, «le parti hanno identificato una serie di temi prioritari. E hanno inoltre deciso di condurre nel più breve tempo possibile un secondo round di negoziazioni». Anche la parte russa pare cautamente ottimista. Medinskij: «Durante l’incontro sono stati trovati punti sui quali è possibile trovare una posizione comune». Le due parti si sono dunque parlate e uno spiraglio di pace, fortunatamente, sembra esserci. Quali siano state le richieste avanzate dalla delegazione russa non è però dato sapere con certezza. Tuttavia, un elemento utile è arrivato nella telefonata, di cui sé avuta notizia ieri pomeriggio, tra Vladimir Putin ed Emmanuel Macron.
Al presidente francese – il solo dei grandi europei con cui Putin non ha mai interrotto un dialogo – il leader del Cremlino avrebbe fatto presente le sue condizioni per porre fine al conflitto in Ucraina, tra le quali rientra il riconoscimento internazionale della Crimea come territorio russo. Una richiesta eccessiva? Si vedrà. Intanto nella giornata di ieri le notizie sono purtroppo state quelle non già di una distensione bensì di una escalation. Infatti, in territorio ucraino gli scontri sono continuati e, se da un lato il Ministero dei Trasporti britannico ha ordinato ai porti britannici di non concedere l’accesso alle navi russe, dall’altro l’ambasciatore polacco in Georgia ha autorizzato l’invio in Ucraina di aerei da combattimento Mig-29.
Ciò potrebbe intensificare e senz’altro prolungare l’invasione russa dell’Ucraina, il cui piano – bollato come fake news da Mosca – circolava già, almeno come notizia, nei primi giorni dello scorso dicembre; ad ogni modo, Guido Olimpio, giornalista del Corriere della Sera, ha fatto ieri presente, citando fonti russe, come Mosca avrebbe in mente almeno due settimane di operazioni militati. Il fatto che dunque in pochi giorni Kiev non sia caduta non pare dunque considerabile, al momento, un fallimento militare dei russi, che pure pare abbiano già registrato oltre 5.000 perdite sul campo. Fin qui il dato di cronaca, per così dire, degli ultimi sviluppi del conflitto ucraino.
Sul piano più politico, la notizia più rilevante di ieri è stata la formale richiesta, avanzata dal presidente Zelens’kyj, di ingresso nell’Unione europea. «Ci appelliamo all’Unione Europea per l’adesione immediata dell’Ucraina con una nuova procedura speciale. Siamo grati ai nostri partner per essere stati con noi, ma il nostro sogno è stare con tutti gli europei e, soprattutto, di essere uguali a loro», sono state le parole del leader ucraino. La reazione di Bruxelles non è però stata delle più calorose. Tutt’altro. «Oggi questo non è all’ordine del giorno, credetemi. Dobbiamo lavorare su cose più pratiche», ha infatti dichiarato l’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera, Josep Borrell, aggiungendo che «l’adesione è qualcosa che richiederà, in ogni caso, molti anni e dobbiamo fornire una risposta per le prossime ore. Non per i prossimi anni, per le prossime ore».
A proposito di risposta dell’Ue a Kiev, non è passata inosservata la decisione europea – insieme alla raffica di sanzioni alla Russia – di stanziare 500 milioni di euro per il finanziamento della consegna di armi agli ucraini. Una scelta che, arrivata a poche ore da quella delle sanzioni, il cui effetto non si è voluto attendere se non per poche ore, alla quale si sta unendo l’Italia e che sa più di escalation che di appoggio ai negoziati di Gomel. Di tutt’altro tenore, invece, è l’azione della Chiesa cattolica, che si sta distinguendo come la sola vera forza in campo a favore della pace. Ben più di Bruxelles, per le ragioni appena dette, ma anche dello stesso mondo ortodosso.
Come infatti si rilevava già ieri su queste colonne, il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill ha diffuso un messaggio, pubblicato il 24 febbraio, in cui semplicemente afferma di farsi carico «con profondo e sentito dolore» delle sofferenze provocate dagli «eventi in atto», non entrando troppo nel merito delle ragioni e delle responsabilità. Parole ben diverse sono invece risuonate anche domenica in piazza San Pietro, con papa Francesco che ha rivolto un chiaro appello: «Tacciano le armi». Mentre l’Occidente è di nuovo non sull’orlo ma, purtroppo, ben dentro un nuovo conflitto, ecco che allora l’unica voce coerente resta quella della Santa Sede. Una voce che dalla condanna della Prima Guerra mondiale come «inutile strage», con le parole di papa Benedetto XV, a quella della Seconda di papa Pio XII – «nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra» – non ha mai smesso di pensare al bene dell’umanità. Quello vero.
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