Pubblichiamo di seguito uno stralcio dell’omelia del Patriarca Francesco Moraglia, tenuta durante la Messa nella solennità del Redentore a Venezia, Basilica del Santissimo Redentore – 21 luglio 2019
di Francesco Moraglia*
«(…) Mentre per la questione etica – “cos’è il bene?”, “cos’è il male?”, “quale il loro fondamento?” – e per la questione teologica – l’Assoluto che spiega le realtà transitorie – si trova, in genere, tanta indifferenza, pigrizia o superficialità, succede invece che quando la domanda riguarda la propria situazione personale, il proprio futuro o la propria salvezza l’atteggiamento diventa diverso.
Anche gli uomini più disinteressati, di fronte alle domande sul senso della vita, su cosa c’è dopo questa esistenza terrena e se esista una salvezza eterna, appaiono più interessati e partecipi. Si può ostentare disinteresse e, perfino, supponenza ma se si è personalmente coinvolti e si avverte che la propria vita è realmente minacciata e il rischio è di perdere la vita, allora si parla meno, si ascolta di più e si è interiormente più ben disposti.
L’uomo avverte tutta la sua fragilità e bisogno di salvezza quando si sente minacciato nell’integrità fisica o quando avverte di aver smarrito il “senso” e il “gusto” della vita. Solo chi l’ha provato può dire il dramma di aver smarrito il “senso” e il “gusto” del vivere; è ciò che noi chiamiamo angoscia, ansia, inquietudine o depressione, situazioni di vita che oggi, più che nel passato, accompagnano l’uomo. E ci sarà bene un perché.
C’è chi si trova in situazioni personali, familiari o lavorative drammatiche eppure possiede animo, coraggio, voglia di lottare e riesce a trovare la strada per uscire da situazioni impossibili o disperate.
C’è, invece, chi pur non mancando di nulla – affetti, lavoro, salute – ha smarrito il “senso” e il “gusto” del vivere e, così, si trova in balia di una sofferenza oscura, sorda e più grande di lui che lo domina e distrugge.
La domanda circa la salvezza personale – intesa come la questione del “senso” – riguarda sia le persone che si ritengono non “realizzate” o fallite sia quelle che, invece, si considerano “realizzate”. C’è chi appartiene al primo gruppo, ritiene di vivere un’esistenza infelice ed è, quindi, insoddisfatto, sempre in attesa di qualcosa; c’è poi chi appartiene all’altro gruppo, quello dei “realizzati” – magari invidiati dagli altri -, e sente di aver raggiunto traguardi, successi e gratificazioni ma vive nel timore o terrore che tutto gli sia tolto.
E poi, per tutti, c’è l’età della pensione, ma non tutti vi arrivano pronti e preparati allo stesso modo; senza dimenticare (anche questo va considerato) che c’è anche un altro tipo di “pensione”, ossia il logorarsi progressivo delle proprie risorse fisiche, psicologiche e relazionali, il venir meno della capacità di reagire agli stimoli di una vita che cambia.
Ad un certo momento si allentano, progressivamente, i contatti con un mondo che fatichiamo sempre più a sentir nostro (talora anche quello di casa, con figli e nipoti) e così si perde l’interesse, la voglia di partecipare e si avverte che si è chiuso o si sta per chiudere un ciclo. Anche i nostri coetanei vengono meno e avvertiamo che l’epoca che si vive è sempre meno nostra.
Sì, tutto passa! E, certo, si può cercare di nascondere la realtà ricorrendo a differenti interventi dai più soft ai più invasivi fino alla chirurgia estetica (talvolta, azzardando troppo, si cade anche nel ridicolo…), ma la carta d’identità e quei tre numeri che dicono un anno, un mese e un giorno precisi – la nostra data di nascita – rimangono sempre e impietosamente gli stessi.
La rivelazione cristiana ci indica una strada che, se per un verso, ribadisce che il tempo non si ferma, dall’altro ci ricorda che tutto rimane, perché la nostra vita è scritta in cielo dove tutto è vivo e attuale.
La liturgia della Chiesa, ogni anno nella prima domenica d’Avvento, ci ricorda che il vero computo del tempo non è quello che segna l’anno solare o sociale ma l’anno liturgico dove il passare degli anni, dei mesi e dei giorni non è uno scorrere meccanico ma la crescita in Cristo, ossia la santità. E tutto è misurato sulla carità che rimane in eterno.
La Parola di Dio, infine, getta una luce nuova sullo scorrere del tempo, nel quale siamo chiamati a convertirci. Ecco le parole dell’apostolo Paolo: “…non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne” (2Cor 4, 16-18).
In questa chiesa – retta dalla Fraternità Cappuccina e dedicata al Santissimo Redentore, tanto cara ai veneziani – impegniamoci allora a vivere di più secondo la spiritualità del Cantico delle Creature, accettando la nostra vita così com’è, con le sue stagioni, la sua primavera e il suo autunno, in modo da gioire della creaturalità.
Questo vuol dire apprezzare il piano di Dio, che riguarda anche il nostro corpo, e che ci salva nel Figlio suo Gesù oggi invocato da noi col bel titolo di Santissimo Redentore». (fonte: Patriarcato di Venezia)
*Patriarca di Venezia
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