La crisi siriana rappresenta uno dei dossier maggiormente spinosi della presidenza di Donald Trump. L’escalation degli ultimi giorni ha segnato un netto peggioramento nei rapporti tra Washington e Mosca (che di Damasco è storicamente il principale sostenitore geopolitico). Il clima internazionale sembra ripiombato nella Guerra Fredda e le incognite restano – al momento – numerosissime. Il punto è difatti capire quante effettive possibilità ci siano che questa tensione sfoci in una guerra aperta. E, sotto questo aspetto, la situazione appare più incerta che mai. Soprattutto dalle parti della Casa Bianca.
Al di là delle ultime dichiarazioni roboanti su Twitter, non dimentichiamo che la posizione dell’attuale presidente americano sulla Siria non si sia mai rivelata troppo battagliera. Esattamente come Barack Obama, anche Trump ha costantemente visto nelle crisi mediorientali null’altro che pantani geopolitici da evitare. In questo senso, negli ultimi anni, il magnate newyorchese ha ripetutamente criticato la scelta effettuata da George W. Bush di invadere l’Iraq nel 2003. Inoltre, lo scetticismo trumpiano verso il Medioriente (e soprattutto verso la Siria) si è spesso saldato con la volontà di avviare un parziale disgelo nei confronti di Vladimir Putin. In questo senso, nelle ultime settimane, Trump ha più volte ribadito – soprattutto nel corso di alcuni comizi – di voler ritirare gli Stati Uniti dalla regione siriana, non appena i rimasugli dell’Isis fossero stati definitivamente spazzati via. Una posizione molto netta, che – neanche a dirlo – ha trovato la ferrea contrarietà di numerosi generali americani, i quali sostengono invece la necessità di preservare l’influenza statunitense in Siria: soprattutto in chiave anti-russa. Lo scontro interno allo Studio Ovale si consuma dunque tra l’isolazionismo storico del presidente e il classico interventismo americano delle alte sfere dell’esercito. E, ovviamente, trovare una sintesi tra queste due posizioni non è affatto facile. Soprattutto davanti alle accuse, mosse al presidente siriano Assad, di aver utilizzato armi chimiche contro i ribelli.
Esattamente come avvenne un anno fa, questa accusa ha spinto Trump ad assumere una postura più muscolare verso la Siria e verso la Russia. L’anno scorso, del resto, il magnate decise di bombardare Damasco appena un paio di giorni dopo aver espresso parole di apprezzamento nei confronti di Assad. Segno di come il presidente americano si senta quasi costretto ad assumere una posizione così aggressive verso una questione che personalmente lascerebbe volentieri in mano a Mosca. Il punto è che non può. Non può perché gran parte dell’establishment americano non ne vuole sapere di disgeli con Putin. Non può perché le attuali posizioni critiche della Casa Bianca nei confronti dell’Iran rendono difficile ogni tentativo di distensione con il Cremlino. Non può perché, qualora non desse dei segnali forti, Trump si ritroverebbe accusato dai suoi avversari di arrendevolezza nei confronti di Mosca, rinfocolando gli scampoli dello scandalo Russiagate.
Il presidente americano si trova quindi sospeso tra due linee antitetiche. Un elemento che probabilmente lo ha spinto, nelle ultime ore, a frenare un intervento bellico che sembrava ormai imminente. E – soprattutto – a gelare (almeno temporaneamente) l’iperattivismo del presidente francese Emmanuel Macron. Trump dovrà dunque lavorare sodo per trovare una via d’uscita a questo stallo contraddittorio.
Gli Stati Uniti insieme a Francia e Gran Bretagna hanno lanciato questa notte, tra venerdì 13 e sabato 14 aprile, una serie di bombardamenti in Siria.
«Il nostro obiettivo è distruggere le capacità di lanciare armi chimiche del regime siriano andremo avanti il tempo necessario per distruggere le loro capacità», ha detto Trump in diretta televisiva alle 21 ora di Washington.
Il Segretario alla Difesa James Mattis ha tenuto una conferenza stampa al Pentagono assieme al capo di stato maggiore Joseph Dunford. «Gli obiettivi presi di mira sono tutti collegati al programma di armi chimiche dell’esercito siriano» e ha spiegato che i bersagli «sono stati specificatamente individuati per evitare di colpire presidi con forze russe in Siria”. Una precisione chirurgica confermata dai russi che hanno fatto sapere che “nessuno dei missili degli Usa e dei suoi alleati è entrato all’interno delle aree anti-aeree russe».
L’ambasciatore russo negli Usa Anatoly Antonov ha avvertito che «le azioni degli Usa e dei loro alleati in Siria non rimarranno senza conseguenze» e ha accusato l’Occidente di aver delineato «uno scenario precostituito» (fonte)
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