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Suor Marcella e i suoi 19 bimbi di Haiti bloccati in Italia dalla giustizia: «Il loro bene si compirà comunque»
NEWS 28 Novembre 2020    di Giulia Tanel

Suor Marcella e i suoi 19 bimbi di Haiti bloccati in Italia dalla giustizia: «Il loro bene si compirà comunque»

«Suor Marcella?».

«Sì, sono io».

Inizia così la nostra telefonata con suor Marcella Catozza, francescana, da anni missionaria in giro per il mondo (Kosovo, Albania, Vietnam…), che negli ultimi 15 anni ha prestato il suo servizio nella povera e provata Haiti, dove, con la Fondazione Via Lattea, ha dato vita al “Villaggio Italia”: un’oasi di speranza per migliaia di famiglie e bambini costruita in seno alla baraccopoli Waf Jeremie, nella capitale Port-au-Prince… un luogo di accoglienza, di ascolto, di cura fisica e spirituale. Ed è proprio da qui che parte quello che voleva essere un progetto di rinascita (“Progetto educativo nella terra di Francesco”) per 19 bambini caraibici, che però è attualmente alle prese con la giustizia italiana, con conseguenze molto problematiche.

In estrema sintesi: dall’estate del 2019 suor Marcella si trova in Italia, precisamente a “Casa Lelia”, a Cannara, in Umbria, con 19 bambini (che oggi hanno tra i 7 e i 15 anni) che sono stati espressamente affidati temporaneamente a lei per compiere un periodo di soggiorno-studio, alla luce della comprovata impossibilità, dettata da vari fattori, di impartire ai piccoli più “promettenti” un’istruzione adeguata e solida nella loro Haiti. L’idea era quella di farli studiare nelle nostre scuole per poi farli tornare nella loro terra per il periodo estivo. Tuttavia, nonostante le rassicurazioni ricevute circa la fattibilità del progetto, il dato di fatto è che – ad oggi – la sorella si trova bloccata in Italia con tutti questi bambini che il tribunale di Spoleto ha dichiarato “minori non accompagnati”, e rispetto ai quali il tribunale dei minori di Perugia ha provveduto a nominare dei tutori… Il che, detto in altri termini, significa che rischiano di essere dati in affido e in adozione, e questo a dispetto del fatto che tutti e 19 hanno ad Haiti una o più figure di riferimento (che sia la mamma, il papà, degli zii…) che non vedono l’ora di riabbracciarli!

Ma torniamo ora alla conversazione che Il Timone ha avuto con la sorella francescana.

Suor Marcella, a che punto siamo della vicenda?

«Nei mesi passati avevamo 13-14 figure di tutori, alcuni dei quali si definivano già “mamma” o “papà”, che erano entrati nel nostro gruppo, consolidato da anni, e che lo avevano destabilizzato. Devo dire che da un mese e mezzo siamo un pochino più tranquilli: un po’ per le restrizioni dovute al Covid e un po’ in seguito a un decreto di agosto del giudice che ha affidato i bambini ai servizi sociali di Cannara, che ha permesso all’assistente sociale di rendersi meglio conto della situazione di confusione che si era creata e di porsi come filtro. Adesso nessuno può prendere i bimbi senza passare da lei e a chi, per esempio, le dice che vuole portare il piccolo a mangiare la pizza, lei dice di comprarla e di venire a mangiarla il sabato sera tutti assieme».

A questo punto, quindi, qual è la sua richiesta alla giustizia italiana?

«Noi abbiamo sempre chiesto di riconoscere i documenti haitiani, secondo quanto fatto dall’ambasciata di Francia: i bambini sono espressamente affidati a me. L’obiezione è che ad Haiti non c’era un’ambasciata italiana che ha riconosciuto i documenti, ma questo cade di fronte agli accordi internazionali che prevedono che l’ambasciata di Francia ne faccia da vece. Comunque, adesso anche il Ministero degli esteri di Haiti è al corrente della cosa: sa che a giugno non siamo potuti rientrare per le vacanze, come invece mi ero impegnata con loro di fare e gli ho spiegato che qui in Italia il giudice sta parlando di affido e adozione. Quindi il Ministero degli esteri di Haiti e quello italiano si sono messi in contatto e hanno verificato la veridicità dei documenti. Poi, il 27 ottobre, è anche stata mandata al Tribunale di Perugia una nota che afferma che non ci sono impedimenti per la nostra riparenza: dopo un mese, tuttavia, stiamo ancora aspettando. La mia richiesta è: lasciateci rientrare ad Haiti. Dopo, quando avremo scaricato tutte le tensioni, lavorando con i due Ministeri valuteremo se il progetto può proseguire e con la mia équipe analizzeremo chi dei bimbi può tornare in Italia e chi invece è meglio che faccia un altro percorso».

I bimbi, appunto: come vivono tutta questa vicenda?

«All’inizio con tanta paura nel vedere arrivare i diversi tutori, figure per loro estranee. Adesso si sentono appesi a un filo: non sapevamo se avremmo iniziato la scuola qui, adesso speriamo di partire prima di Natale, anche se mi sembra difficile… Loro sentono tutto. Poi durante questo mese e mezzo senza tutori e udienze si sono calmati un attimo, però basta che arrivi una persona e loro chiedono: “Ci porta via?”, “È buono o cattivo?”».

Una cosa che rattrista molto è che questi impedimenti giudiziari stanno andando a inficiare un progetto che era partito molto bene, anche grazie a una mobilitazione importante delle amministrazioni locali e al generarsi di un circolo virtuoso di gesti di carità e volontariato…

«Esatto. Purtroppo abbiamo perso tutto. Un po’ per il Covid e un po’ per le tensioni. Adesso, per esempio, abbiamo degli educatori fissi con funzione di controllo: persone bravissime, che hanno capito la situazione, ma che comunque sono esterne a noi, cosa che i bambini percepiscono, e che sono diverse dai volontari; volontari che si sentono un po’ in difficoltà nel sentirsi osservati da loro, tanto che due o tre hanno anche desistito dal venire».

Da suora, da missionaria, come vive questa vicenda che sta gravando sulle sue spalle?

«Da una parte mi fa molto arrabbiare, soprattutto per il fatto che non si riesce a dialogare, non c’è una controparte con un volto che ci ascolta e ci risponde. C’è solo un muro di pregiudizi, si applicano leggi, idee o concetti senza guardare il reale: ci chiamano “struttura”, mentre la nostra è una “casa” abitata da una grande famiglia; io per loro sono solo la “locataria” della casa, mentre alcuni di questi bimbi li ho tirati fuori dai tombini o accolti denutriti…

Dall’altra parte però sono certa, per l’esperienza che faccio di Cristo nella mia vita, che il bene di questi bimbi si compirà al di là di tutto. Forse non nella forma che avevo pensato io, ma va benissimo, il Signore sa. Quindi su questo sono serena e in pace. Poi un po’ scalpito perché sono 25 anni che sono in missione e quindi il fatto di essere da un anno ferma in Italia mi pesa… e poi qui fa freddo, non sono più abituata! Tuttavia la vocazione ha dentro un “Sì” alla circostanza: evidentemente ora Gli servo qui».


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