Nei giorni in cui l’America e il mondo sono ancora scossi dalle sparatorie che hanno fatto 22 vittime in un supermercato a El Paso, in Texas, e 27 vittime di cui 9 persone uccise – compresa la persona che ha sparato – a Dayton, Ohio – senza dimenticare la sparatoria a fine luglio al Gilroy Garlic Festival, in California – si sono ascoltate molte riflessioni anche se la maggior parte si sono arrestate a letture superficiali, se non a slogan, come i ritornelli contro la diffusione di armi e come il titolone del quotidiano Repubblica, che in prima pagina ha parlato di stragi «dell’uomo bianco». Di tutt’altro tenore, invece, sono stati i pensieri degli uomini di Chiesa rispetto a questi tragici eventi.
Il cardinale Daniel DiNardo, presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, e il vescovo Frank J. Dewane di Venice, in Florida, presidente della commissione per la giustizia interna e lo sviluppo umano sempre della Conferenza episcopale Usa, hanno diffuso una nota in cui spiegano che «qualcosa rimane fondamentalmente malvagio nella nostra società, soprattutto quando i luoghi in cui le persone si riuniscono per impegnarsi nelle attività quotidiane della vita possono – senza preavviso – diventare scene di violenza e disprezzo per la vita umana».
Pur condannando quindi «la piaga della violenza armata continua e senza controllo», i due pastori invitano a guardare in profondità rispetto a qualcosa di «fondamentalmente malvagio nella nostra società». Un invito del tutto analogo a quello formulato da un monsignor Charles Chaput, arcivescovo di Filadelfia il quale segue da vicino questi temi se non altro perché celebrò le esequie di alcune delle vittime del massacro della Columbine High School, avvenuto come si ricorderà nell’aprile del 1999. In particolare, nel suo commento a quanto accaduto in queste settimane, Chaput ha esortato tutti a considerare più globalmente il problema della violenza e, quindi, del male.
«Viviamo nel secolo più violento della storia», ha ammonito l’arcivescovo, aggiungendo che «niente ci rende immuni da quella violenza se non un impegno incessante per rispettare la santità di ogni vita umana, dall’utero alla morte naturale. La civiltà e la comunità che abbiamo costruito in questo paese sono fragili. Li stiamo perdendo».
A questa sottolineatura, monsignor Chaput – che pure non difende, anzi, il diritto costituzionale americano di possedere armi («il secondo emendamento non è un vitello d’oro, servono più controlli») – ne ha fatta seguire un’altra: quella su una interpretazione non settoriale bensì generale di quel qualcosa di «fondamentalmente malvagio» che permane società, di cui si diceva poc’anzi.
«L’esperienza mi ha insegnato che solo uno sciocco può credere che il “controllo delle armi” risolverà il problema della violenza di massa», ha spiegato l’arcivescovo di Filadelfia, chiarendo che «le persone che usano le pistole in questi disgustosi incidenti sono agenti morali vittime di un cuore offuscato» dalla «dalla cultura dell’anarchia sessuale, dell’eccesso personale, degli odi politici, della disonestà intellettuale e delle libertà pervertite che abbiamo sistematicamente creato nell’ultimo mezzo secolo».
Se siamo convinti di questo, ha concluso Chaput, «dobbiamo guardare più in profondità perché fino a quando non saremo disposti a farlo, nulla di fondamentale cambierà». Un’esortazione, questa, della quale non possiamo che essere tutti grati dal momento che è salutare, spiritualmente ed eticamente, che ci sia ancora chi – andando oltre letture meramente sociologiche e superficiali della violenza – si spinga fino a denunciare l’origine in quel male a cui tutti, purtroppo, siamo esposti, e da cui Dio, Lui solo, può liberarci.
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