XI Domenica del Tempo Ordinario 13/06/2021
Commento al Vangelo Mc 4, 26-34
Dipendere da qualcuno, dipendere da qualcosa.
Credo fermamente che questa sia una delle domande cruciali dell’uomo, perché passa dall’esperienza di profonda affettività e Amore di ciascuno di noi: dipendere non è un male, ma bisogna sapere bene da chi dipendiamo e a cosa puntiamo nel nostro dipendere.
Il seme che cade per terra e germoglia dipende unicamente dall’azione della terra che stabilisce con lui un rapporto di totale comunione e tale rapporto produce la “morte” apparente del seme che altro non è che il ripresentarsi della nuova vita: il germoglio, la pianta, il frutto.
Non possiamo non dipendere da qualcuno o da qualcosa. Non possiamo pensare alla nostra vita senza collegarla, in maniera sostanziale e determinante ad un legame: la madre, il padre, il rapporto uomo-donna, padre e madre/figli, sono dipendenze che generano libertà e originalità.
Il Vangelo di questa domenica ci libera proprio dalla tentazione e dal pericolo delle false dipendenze: una dipendenza è pericolosa e dannosa quando chiude la nostra libertà, quando ci fa trasformare in altro da quello che siamo, quando ci fa costruire maschere che non ci permettono di morire a noi stessi ma ci lasciano marcire nella falsa immagine di un sacrificio svolto senza scopo.
L’infinitamente piccolo. Era il titolo di una raccolta di testi delle fonti francescane che il cantautore Branduardi musicò alcuni anni fa.
Francesco d’Assisi ci insegna cosa significhi essere veramente piccoli. Non lasciamoci guidare da tanata ipocrisia sul tema, tanta falsa modestia e “radicalismo chic”. L’infinitamente piccolo è colui che si sacrifica per ottenere il Regno dei Cieli: non si mutila o si umilia ma si sacrifica per qualcosa di più grande, “raddoppia la posta”, potremmo dire.
Il chicco di senape fa proprio questo, cioè muore a se stesso perché possa crescere, imporsi sulla natura, fino a diventare un albero enorme, immenso capace di portare ristoro nella calura oltre che un importante frutto.
L’umiltà di Francesco ha due fonti di illuminazione, una di natura teologica e una di natura cristologica. Nella Bibbia troviamo atti di umiltà che non partono dall’uomo, dalla considerazione della propria miseria o dal proprio peccato, ma hanno come unica ragione Dio e la sua santità. Tale è l’esclamazione di Isaia “Sono un uomo dalle labbra impure”, di fronte alla improvvisa manifestazione della gloria e della santità di Dio nel tempio (Is 6, 5 s); tale è anche il grido di Pietro dopo la pesca miracolosa: “Allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8).
Siamo davanti all’umiltà essenziale, quella della creatura che prende coscienza di sé al cospetto di Dio. Finché la persona si commisura con se stesso, con gli altri o con la società, non avrà mai l’idea esatta di ciò che è; gli manca la misura. Francesco ha posseduto in modo eminente questa umiltà. Una massima che ripeteva spesso era: “Quello che un uomo è davanti a Dio, quello è, e nulla più”.
Qui nel deserto “kuwaitiano”, tutto questo è molto visibile agli occhi del cuore e agi occhi del corpo. La semina è un’attività quasi del tutto impossibile, frutta e verdura arrivano di importazione ma la speranza delle comunità cristiane è qualcosa di certo e magnifico seppur vissuti proprio in un sentimento di profondo e apparente “silenzio”. Qui si semina nel vero nascondimento: rapporti umani che si coltivano lentamente, nel tempo, per anni; un fluido di Grazia che scorre silenziosa e opera in profondità, nell’apparente assenza. E’ la testimonianza continua delle comunità cristiane qui presenti. La pazienza diventa una virtù ancora più forte e carica di significato perché lascia sperimentare la fruttuosità lenta di questa opera di missione. Un sollievo per la mia postmoderna fretta di fare e ricevere tutto e subito, una scuola di vita che il Vangelo ci dona negli occhi e nei volti di un piccolo resto di Israele che non demorde.
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