Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo 06/06/2021
Commento al Vangelo Mc 14,12-16.22-26
Questa festa dell’Eucaristia, o del Corpo del Signore (Messale di Pio V), o solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Messale di Paolo VI), come la solennità della Trinità di Dio celebrata domenica scorsa è tardiva. Infatti, è stata istituita nel XIII secolo, e nel secolo seguente ha faticato a imporsi in occidente, restando invece sempre sconosciuta nella tradizione ortodossa. L’intenzione della Chiesa è quella di proporre, fuori del santissimo triduo pasquale, la contemplazione, l’adorazione e la celebrazione del mistero eucaristico del quale viene fatto memoria il giovedì santo, in coena Domini.
Prima del suo arresto e della sua morte in croce, Gesù ha voluto celebrare la Pasqua con i suoi discepoli, e proprio per questo durante il suo ultimo soggiorno a Gerusalemme, nel primo giorno della festa dei pani azzimi, invia due suoi discepoli affinché preparino l’occorrente per la cena pasquale. Gesù sa di essere braccato, di non potersi fidare neppure di tutti i suoi discepoli, perché uno l’ha ormai tradito (cf. Mc 14,10-11), dunque predispone ogni cosa perché quella cena pasquale possa avvenire, ma agisce con molta circospezione, come se non volesse che si sapesse dove la celebrerà. Per questo i due discepoli da lui inviati devono incontrare un uomo che porta una brocca d’acqua (cosa insolita, perché erano le donne a svolgere tale operazione, ma questo è il segno convenuto), devono seguirlo fino a una casa, dove costui indicherà loro la camera alta, la sala al piano superiore già arredata e pronta, in cui predisporre tutto per la cena: è la stanza nuziale, dove abitualmente non si mangiava e dove gli ebrei non celebravano mai la Pasqua (Pesach) e vedremo che non è un particolare sfuggito o secondario.
Occorre infatti preparare il pane, il vino, l’agnello, le erbe amare, per ricordare in un pasto l’uscita di Israele dall’Egitto, la liberazione dalla schiavitù, la nascita del popolo appartenente al Signore.
Ed ecco che nell’ora della cena Gesù fa dei gesti e dice alcune parole sul pane e sul vino. Di questa scena abbiamo quattro racconti, tre nei vangeli sinottici (cf. Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,18-20) e uno nella Prima lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 11,23-25): racconti che riportano parole tra loro un po’ diverse, a testimonianza di come non si tratti di formule magiche da ripetersi tali e quali, ma di parole che manifestano l’intenzione di Gesù e spiegano i suoi gesti. Le prime comunità cristiane, dunque, volendo restare fedeli all’intenzione di Gesù, hanno ripreso i suoi gesti, e da allora la cena del Signore è sempre e dovunque celebrata così nelle chiese.
Innanzitutto, Gesù prende il pane azzimo che è sulla tavola del seder pasquale, pronuncia la benedizione e il ringraziamento a Dio per quel dono, quindi lo spezza e lo porge ai discepoli. È significativo soprattutto il gesto dello spezzare il pane, che già nei profeti indicava il condividere il pane con i poveri, i bisognosi e gli affamati (cf. Is 58,7), che esprime una condivisione di ciò che fa vivere, che manifesta la comunione tra tutti quelli che mangiano lo stesso pane. Ecco perché il primo nome dato all’Eucaristia dai discepoli e dai cristiani delle origini è “frazione del pane” (cf. Lc 24,35; At 2,42; 20,7; Didaché 9,3). Quanto alle parole che accompagnano il gesto – “Prendete, questo è il mio corpo” –, esse vogliono significare che Gesù dona la sua intera persona ai discepoli i quali, mangiando quel pane, si fanno partecipi della sua vita spesa e consegnata per amore, “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). In questo modo Gesù spiega in anticipo e in piena libertà, con gesti e parole, ciò che accadrà di lì a poco: la sua morte è un dono agli uomini e un’offerta a Dio.
Poi Gesù prende anche il calice tra le sue mani e con solennità dichiara: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è sparso per le moltitudini”. Come ha dato il suo corpo dando il pane, così dà il suo sangue dando il calice del vino da bere ai discepoli; ovvero, dà la sua vita, rappresentata nella cultura semitica dal sangue. Qui si deve cogliere il compimento a cui Gesù vuole portare le parole che sigillavano l’alleanza tra Dio e Israele al monte Sinai, quando, con il sangue delle vittime del sacrificio Mosè asperse l’altare, trono di Dio, e il popolo riunito in assemblea, dicendo: “Questo è il sangue dell’alleanza” (cf. Es 24,6-8). Ma l’alleanza che Gesù stipula con il dono della sua vita non è più ristretta a un popolo, bensì è un’alleanza universale, nel suo sangue sparso “per le moltitudini (rabbim, polloí: cf. Is 53,11-12), cioè per tutti”.
Dio mistero nuziale in quanto mistero trinitario. Questa può essere una sintesi delle solennità che celebriamo in queste domeniche dopo il tempo pasquale. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. E’ a partire da qui che possiamo tentare di capire Dio, illuminati dal rapporto nuziale di Cristo con la Chiesa che percorre tutta la Bibbia.
Ecco la centralità dell’Eucarestia, la pienezza escatologica sarà l’Eucarestia perché rappresenta la totalità̀ del rapporto fra Cristo e la Chiesa nell’eternità. Alla fine dei tempi si realizzerà l’una caro (una sola carne) definitiva. L’Eucarestia è fondamento e culmine di tutti i sacramenti e sorgente del sacramento dell’ordine e delle nozze. Il sacramento delle nozze e dell’ordine sacro sono in relazione attraverso cinque categorie: alterità, reciprocità, una caro, fecondità, paternità/maternità. Come fedele (battezzato) il prete è parte della sposa (Chiesa) ma come ordinato sta di fronte alla Sposa.
Condivisione, comunione, alterità e dono. Sono le stesse parole che uscirono dalla bocca di Miriam (Maria!), una giovane madre e sposa originaria dell’India, emigrata qui con la sua famiglia. E’ infermiera e noi cristiani sappiamo metterci passione vera nel lenire le ferite (per questo anche i musulmani si fanno curare e accudire dai cristiani, anche se donne) e lei ogni mattina cura e accudisce i malati cercando in loro il volto di Gesù sofferente: “Perché formare una famiglia, altrimenti, padre? Senza condividere, senza comunione, senza riconoscere l’altro come l’Altro che mi sta vicino, che senso avrebbe?”. Nessun senso, ha ragione Miriam; sarebbe solo un tentativo egoistico di pensare un amore anziché viverlo e testimoniarlo.
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