Solennità della Santissima Trinità 30/05/2021
Commento al Vangelo Mt 28, 16-20
Una recente consuetudine liturgica ci fa celebrare in questa domenica la festa della Santissima Trinità. Dovremmo non pensare a questa “idea” ma a una realtà: in Dio c’è ormai l’umanità del Figlio morto come uomo ma risuscitato nella forza dello Spirito santo, sicché non si può più parlare di Dio senza parlare dell’uomo e, soprattutto, non si può più andare a Dio se non attraverso “la via” (Gv 14,6) che è suo Figlio Gesù Cristo, uomo nato da Maria, vissuto tra di noi, morto e risorto nella nostra storia. Ecco allora cosa annunciare in questa festa che succede al tempo pasquale: Dio si è unito all’umanità in modo indissolubile e l’umanità trasfigurata è in Dio attraverso il Figlio Gesù che, come era disceso, così è salito al cielo (cf. Ef 4,9-10), “costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti” (Rm 1,4).
Vorrei sostare soprattutto su una frase molto semplice: “Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Secondo Matteo solo Maria di Magdala e l’altra Maria, dopo aver trovato la tomba vuota, avevano visto Gesù, il quale le aveva salutate con il dono messianico della pace: “Shalom!” (Mt 28,9). Poi aveva comandato loro di essere messaggere dell’annuncio pasquale presso gli apostoli: “Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10). I discepoli, intimi di Gesù, ascoltato l’annuncio da parte delle donne discepole, eseguono puntualmente quel comando.
E così quel gruppo di dodici, ridotto a undici perché Giuda se n’è andato, ritorna sulle strade della Galilea. Devono lasciare Gerusalemme, la città santa, e tornare dov’era iniziata la predicazione di Gesù (cf. Mt 4,12-17): nella Galilea delle genti, terra periferica, terra spuria, abitata da ebrei e non ebrei, terra cosmopolita… Devono andare nel mondo, tra gli uomini e le donne, per affermare che tutti sono chiamati alla fede in Cristo, che ormai – come scrive Paolo – “non c’è più né giudeo né greco” (Gal 3,28), per dare vita a una nuova comunità, non più legata da carne e sangue, da lingua o cultura, da vicinanza o lontananza, ma una comunità che trovi in Gesù Cristo un legame, un fondamento al suo credere, sperare e amare.
Gesù, in risposta, si rivolge agli undici con la sua parola di Kýrios, di Signore risorto e vivente, dicendo loro: “Una volta andati tra le genti dell’umanità intera, fino ai confini del mondo, fate discepoli, cioè cercate che gli uomini e le donne accolgano la buona notizia del Vangelo, mettendosi alla sua scuola. E immergeteli (questo significa letteralmente il verbo “battezzare”) nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. È l’unica volta in cui nel Nuovo Testamento si parla di battesimo-immersione nel Nome della Tri-unità di Dio, mentre di solito si attesta il battesimo nel Nome di Gesù, l’essere immersi con lui nella sua morte e resurrezione, o nello Spirito che rimette i peccati e santifica. Qui Matteo opera un accrescimento teologico, perché nel suo vangelo Gesù rivela il Padre parlando sovente di lui e rivela lo Spirito promettendolo ai discepoli (cf. Mt 10,20). La comunità dei discepoli ha le sue radici nella vita trinitaria del Padre e del Figlio e dello Spirito santo.
La comunità cristiana libanese che vive qui in Kuwait rappresenta, per me, una delle espressioni più belle dell’esperienza trinitaria. Persone di varie appartenenze sociali e culturali che sono espressione di comunione, perché legate non da un interesse o un piacere, ma dalla persona di Gesù. Questa loro appartenenza è talmente forte che è testimonianza apostolica, fatta con il loro lavoro, con il loro sorriso, il loro sguardo: essere liberi perché è la Verità che ti fa libero. Così mi è accaduto di vedere quanto la nobiltà kuwaitiana, pur non condividendo nulla della loro (nostra) fede abbia però un profondo riconoscimento di verità nei loro confronti: lavorano bene, svolgono il loro lavoro, la loro mansione con gioia, serenità e questo li colpisce anche se accresce la loro invidia perché si tratta di cristiani che non possono essere elogiati ma riconosciuti, al massimo, utili. Non sanno di avere, di fatto, dimostrato che ciò che cambia la nostra vita non è il dover fare o dover essere ma Ciò che ti fa fare e ti fa essere, Chi ti accompagna con amore in questa conversione. I fratelli cristiani libanesi lo sanno bene, lo annunciano bene con il loro sudore, il loro sorriso, il loro Trinitario Amore.
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