VI Domenica di Pasqua – Ascensione del Signore
Commento al Vangelo Mc 16, 15-20
Che cosa celebriamo nella solennità dell’Ascensione del Signore? Innanzitutto il compimento della missione del Figlio: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al padre” (Gv 16,28).
Il mistero dell’amore di Dio per l’uomo, manifestato come discesa e abbassamento nell’incarnazione, trova la sua pienezza nell’Ascensione, con cui il Figlio porta nella vita trinitaria la carne umana e ci conduce a confessare che alla destra del Padre siede ormai un corpo umano, la carne di Cristo che è anche la nostra carne, la condizione della nostra umanità. Nel Cristo asceso “quale primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29) c’è la caparra della nostra destinazione ultima, c’è la memoria della nostra chiamata alla piena “partecipazione alla natura divina” (2Pt 1,4).
Così l’Ascensione celebra anche il mistero della salvezza a cui siamo chiamati: la vita in Dio per sempre nel Figlio. E infine nell’Ascensione contempliamo il compimento di una parola della Scrittura. Il Cristo che sale al cielo e siede alla destra del Padre adempie al comando “Siedi alla mia destra” (Sal 110,1) rivolto da Dio al re-messia nell’Antico Testamento e che accompagnava l’ascesa al trono e la presa di possesso, da parte del nuovo re, del palazzo regale che si trovava appunto alla destra del Tempio, della dimora di Dio. L’Incarnazione e l’Ascensione sono allora i due poli di un unico mistero di obbedienza del Figlio alla volontà di amore e di salvezza universale del Padre.
Le parole poi, dice Qoelet, “sono come frecce” (Qo 12,11): esse indicano, orientano, danno un senso e una direzione. Sono dunque un’altra forma di presenza del Signore. Forma che implica la memoria e l’interpretazione da parte dei discepoli. Si tratta di ricordare ciò che il Signore ha detto e di interpretalo per viverlo nel nuovo contesto. Di certo, nel testo odierno di Marco, tra le parole pronunciate da Gesù immediatamente prima della sua ascensione al cielo, vi è il comando di andare e annunciare il vangelo ovunque: la missione e la predicazione della chiesa coprono il “vuoto” dell’assenza fisica di Gesù. “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). Sta alla chiesa rendere presente il volto di Cristo nel tempo in cui l’ascensione l’ha sottratto alla vista, nel tempo tra la Pasqua e la Parusia. Sta alla chiesa renderlo presente tra gli uomini.
In questi giorni si è concluso il Ramadan, il tempo sacro dei musulmani nel quale, per un mese all’anno, i fedeli islamici rinunciano ad ogni attività lavorativa (o viene diminuita fortemente) e ad ogni attività (compreso mangiare, fumare e tutto quello che distoglie dalla vita spirituale) dall’alba al tramonto. Una rinuncia che apre loro le porte del perdono dell’Altissimo. E’ un periodo molto duro, dove la parola (il corano) e la preghiera rivelano una grande sofferenza; i volti delle persone sembrano solcati dalla certezza di una sorte inevitabile: la rassegnazione sulla decisione finale di Allah. Molti commentatori tendono a far coincidere il tempo del ramadan con la nostra quaresima, ma il senso è profondamente diverso. La famiglia di Fares (il mio amico sarto) me l’ha chiarito in maniera semplice ma lampante. “Vedi padre, se noi rinunciamo a qualcosa per un certo tempo, lo facciamo con la certezza che avremo molto di più in un tempo successivo. Altrimenti il sacrificio non avrebbe senso. Se Gesù ha detto che avremo la vita eterna e noi siamo mortali, occorre sicuramente fare un sacrificio. I miei figli imparano che se devono stare attenti a come parlano, come vestono, cosa mangiano e come si esprimono senza tradire quello che sono (cristiani) perché viviamo in un paese islamico, imparano ad essere liberi, con qualche sacrificio, ma questo li fortifica ed è un bel punto in avanti per la vita eterna”. Semplice come una colomba, prudente come un serpente. Il genio cristiano.
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