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22.12.2024

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Stilla come rugiada dal Kuwait #26 – Per essere davvero liberi
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10 Ottobre 2021

Stilla come rugiada dal Kuwait #26 – Per essere davvero liberi

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario 10/10/2021

Commento al Vangelo Mc 10, 17-30

Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».

Guardare, fissare lo sguardo, osservare e amare. In questo brano del Vangelo si concentra la metodologia di Dio, la metodologia dell’Amore: osservare vuol dire conoscere e conoscere è fondamentale per amare, lo sguardo di Gesù conosce e ama allo stesso tempo.

Dobbiamo, però, cominciare dall’inizio di questa pagina evangelica e capire la “contro domanda” di Gesù al caloroso gesto di affetto e stima di quest’uomo che Matteo indica come giovane, ma che Marco non specifica nell’età, favorendo il nostro immedesimarci in lui, indipendentemente dall’anagrafe.

Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».

Nessun uomo è buono per natura, questo è un dato antropologico che l’intero Vangelo afferma, spingendoci alla conversione e alla purificazione costante della nostra mente, del nostro cuore e, appunto, del nostro sguardo.

Questo “giovane”, però, mostra tantissima curiosità per Gesù, lo riconosce maestro, guida a tal punto da inginocchiarsi davanti a lui, definendolo appunto “maestro buono”. E’ desideroso di dare un senso alla sua esistenza, una risposta alla sua domanda di infinito, di felicità, di piena comunione con Dio: cosa devo fare per avere la vita eterna?. Non è una domanda scontata. Noi chiediamo a Dio, spesso, cosa dobbiamo fare per uscire da una situazione difficile contingente, da un dolore, da una insicurezza ma difficilmente chiediamo a Dio, con tale enfasi e passione: cosa devo fare perché la mia vita guardi al Cielo? Perché la mia quotidianità possa assumere il sapore dell’eternità? Che sarà di me se non vivo così?

Il Maestro riconosce la sincerità di quest’uomo, il desiderio profondo di bene che lo attraversa e lo “sfida” con la sua “contro domanda”: perché mi chiami buono, solo Dio è buono e tu sai come puoi aspirare a questa bontà, conosci i comandamenti. E qui dobbiamo porre attenzione. Gesù elenca i comandamenti che regolano il rispetto tra noi e il prossimo, non elenca quelli che indicano i nostri “doveri” verso Dio. Quest’uomo è pieno di zelo, ama Dio, ma il Signore coglie che si trova intrappolato in una rete che lo separa dalla piena comunione con Dio e i suoi fratelli; è come se vivesse la vita a compartimenti stagni: la realtà è una cosa e Dio altro, ma è una dimensione che quest’uomo non si rende conto di affrontare, è serio nella sua ricerca, ha bisogno di fare un salto e il salto arriva subito.

“Allora Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò”, “ho de Iesoûs emblépsas autô egápesen autòn” (Mc 10,21). Il testo greco ci aiuta a comprendere la pedagogia di Gesù. Il verbo che indica lo sguardo di Gesù (emblépsas) significa letteralmente fissarlo, “inchiodarlo” con la profondità dello sguardo, uno sguardo così carico di amore che mai quell’uomo abbia potuto sentire e aggiunge con il verbo egápesen (agapao) che è l’amore totale, gratuito, divino di Dio; quell’uomo è stato investito dalla Grazia dell’Amore, può scoprire adesso la vera bontà che ha attribuito a Gesù, definendolo “maestro buono”.

Quello che ne segue è il dramma del nostro uso sbagliato della libertà.

Quell’uomo ha chiesto che cosa dovesse fare per avere la vita eterna e Gesù non solo glielo dimostra nella concretezza del suo Amore e del suo salvifico sguardo, ma lo declina anche a parole: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».

Nient’altro che accogliere pienamente quel dono, quello sguardo di Gesù, quella Grazia e ricevendo anche la modalità pratica per fare questo: tu hai un grande cuore, sei onesto nella tua ricerca di senso, ciò che ti frena è accumulare beni credendo di riposare su di essi mentre, in realtà, è questa finta certezza che ti fa oscillare e che non ti lascia sicuro! Stai con me, condividi con il prossimo ciò di cui ha bisogno e costruisci con questo amore il Paradiso (va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo). L’uso corretto della nostra libertà ci spinge a scegliere il Bene e la Verità nelle nostre decisioni; si è veramente liberi quando sappiamo aderire a Dio, anche se questo costa uno strappo, un sacrificio, rivedere i nostri parametri. L’uomo confonde la libertà con il libero arbitrio: posso scegliere tutto e quindi qualsiasi cosa è buona se risponde al mio criterio, mentre è buono e risponde a libertà la scelta che ci porta al Bene, alla Verità che sono la legge di Dio, non il mio sentimento. Il “giovane ricco” cade nel tranello. Il suo sentimento di sicurezza (apparente, perché altrimenti non sarebbe andato in ginocchio da Gesù) prevale sulla scelta di accogliere il dono del Signore, piomba improvvisamente in quel vuoto che lo attraversa, tornando indietro, riprendendo il suo schema per paura di abbracciare il dono della Salvezza: va incontro alla tristezza, quella scura che può portare alla disperazione.

Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!».

Di nuovo il verbo guardare, questa volta in greco con il significato di far girare attorno lo sguardo, unire tutti punti di chi gli stava intorno. La Salvezza è uno sguardo di insieme sulla nostra vita. La constatazione di Gesù non è moralistica, non è pauperistica, non è ideologica: è sostanziale.

Possedere ricchezza per accumularla e farne il tuo cuscino non coincide con il riposare tranquillo, poiché costruisci un’idolatria pericolosa e subdola. I beni non sono un male, cambiare l’essenza dei beni diventa un’autocondanna per noi. Un bene (onestamente guadagnato, ovviamente) è frutto di un lavoro, di un impegno, di un talento che abbiamo fatto crescere. Questo appartiene alla vocazione dell’uomo, all’impegno umano di collaborare al disegno di Dio Padre. Il problema sorge quando crediamo che questo frutto sia svincolato dal talento dato; che questo frutto non necessiti di una domanda: cosa mi chiede Dio quando mi da un dono? Un dono è per me ma se mi è dato perché porti frutto, vuol dire che devo presentarlo a chi giudicherà questo frutto e non è la ricchezza stessa a giudicare il mio operato, altrimenti saremmo schiavi dell’esito delle cose. E’ la Comunione d’Amore con Dio e con i fratelli che giudica il dono, quanto noi mettiamo a frutto le nostre doti perché cresca questo Amore, cresca la conoscenza di Dio e dei fratelli, cresca la conoscenza della Verità, quella che ci rende liberi. Il giovane ricco ha paura di tutto questo, non si fida, non crede che quello sguardo sia più grande di ogni timore, pur avendo sperimentato la Bontà di quell’uomo.

Dobbiamo essere attenti, il regno dei Cieli è sempre vicino nella Grazia di Dio, ma diventa un ignoto se torniamo sui nostri passi, un ignoto di cui la tristezza di questo vuoto è solo il primo passo.

Grazie comunità cristiana del Kuwait, grazie per la ricchezza della vostra fede, per la ricchezza della vostra umanità, per la bellezza e preziosità di tante cose che offrite, ciascuno secondo il proprio lavoro e possibilità, per il bene di tutti: il cibo, la casa, la bellezza delle tradizioni, l’Amore che avete visto e sperimentato. La carità è la Bellezza suprema di Dio, chi non la condivide non può conoscere il Creatore.

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