XXV Domenica del Tempo Ordinario 19/09/2021
Commento al Vangelo Mc 9, 30-37
«Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo».
La liturgia di domenica scorsa ci aveva introdotti alla confessione di Pietro, “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, mentre quella odierna ci introduce alla comprensione della messianicità di Cristo da parte degli altri discepoli, ma potremmo dire della Chiesa.
In cosa consiste l’opera della Salvezza? Come avviene? L’opera della Salvezza è l’essenza più profonda dell’Amore, della Carità di Dio, che dona tutto se stesso per ciascuno di noi e nel donarsi, non soltanto offre la Sua vita mortale, ma dona a noi la Speranza (virtù cardinale che è certezza del cristiano) della vita eterna, della Resurrezione in questo corpo mortale che non sarà più la prigione dell’anima, secondo il platonismo e neppure l’espressione più “sublime” dell’edonismo o del narcisismo ma il reale corpo glorificato che Dio ha donato all’uomo come tempio dello Spirito.
La forma passiva del verbo utilizzato da Gesù è molto importante, ed è quello il punto di incomprensione da parte dei suoi discepoli: non capiscono quelle parole e temono, hanno paura di porre domande.
Quanto impariamo dai discepoli! Quanto, anche noi, possiamo riflettere nelle loro paure, nelle loro titubanze, le nostre. E’ interessante notare che il timore di porre domande nasca da una situazione di non conoscenza, di oscurità, sulla quale proiettiamo il nostro “immobilismo” che ci fa diventare aridi, timorosi, come immobili davanti alla vita che d’improvviso diventa un bivio. I discepoli non comprendono quelle parole e non sorge loro il desiderio di approfondire e di andare oltre ma, al contrario, di fermarsi e far vincere la paura, il blocco della loro anima, del loro cuore.
Tutto, come dicevo, si racchiude nella forma passiva del verbo: il Figlio dell’Uomo, viene consegnato. Il Salvatore indica, ancora una volta, un metodo: viene consegnato, vuol dire che Dio lascia che l’uomo compia il male, ossia non cancella mai la libertà dei suoi figli, anche quando questa libertà è usata drammaticamente male. La potenza di Dio agisce come forza di riconciliazione, di restaurazione del Bene, della Verità, dell’Amore. Dio non risponde con la vendetta, non risponde con la stessa moneta ma trasforma quel male, la morte del Suo Unigenito Figlio nella più grande affermazione della Vita: Risorgerai con me! Come possiamo comprendere questo, noi che per ostinazione siamo abituati a misurare tutto con il metro della giustizia umana, ossia della bilancia? Dio non usa la bilancia, Dio ripristina la giustizia con l’Amore, che non vuol dire soprassedere o far finta che nulla sia successo ma vuol dire, al contrario, affermare il principio che la Verità non si impone con violenza o con supremazia, ma con l’Amore che non è un palliativo, ma una metodologia precisa: se amiamo veramente, la prima conseguenza è riconoscere il nostro limite, i nostri errori, le nostre mancanze nei confronti di chi ci ha dimostrato misericordia, di chi ci ama. Se non avviene questo, non stiamo amando ma possedendo l’altro, lo stiamo gestendo pensando di volergli bene perché pretendiamo che faccia quello che è giusto che secondo noi avvenga, ma non stiamo amando e neppure conoscendo l’altro.
Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande.
Il tacere dei discepoli, indica esattamente questa posizione, questo tranello teso alla nostra libertà: “non capisco cosa tu voglia fare ma io so farlo meglio, io sono più bravo e rispondo al male dei romani, degli avversari, dei nemici con le mie aspettative e azioni, non posso affidarmi a te”.
Ancora una volta il tacere grida la non conoscenza de discepoli, stanno con Lui ma non lo conoscono e la conoscenza è indispensabile per amare come amare per conoscere come ci insegna tutta la teologia del Vangelo di Giovanni. Di quale conoscenza parliamo? Della semplicità del cuore, che è dono dello Spirito, della Pentecoste.
Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Perché dovrei essere ultimo? Perché dovrei rinunciare a qualcosa che mi rende grande per abbassarmi al pari di chi, invece, non capisce o non sa fare quella cosa?
La semplicità del cuore. Noi interpretiamo le parole di Gesù sui bambini con due angolature: raggiungere la loro “semplicità” e, soprattutto in questo periodo storico, fare molta attenzione a non scandalizzarne mai alcuno.
Due interpretazioni corrette, ma mancanti di una parte della motivazione.
Non è facile accogliere un bambino veramente. Noi pensiamo di accoglierli semplicemente con qualche gioco, qualche gesto di affetto e qualche regalo. I bambini sono molto intelligenti, avvertono chiaramente l’intenzione dell’adulto, accoglierli significa saperli ascoltare e rispondere loro adeguatamente, ma con Verità, la stessa modalità della fede: con semplicità dire sì al Signore, ascoltando cosa Lui ci indica e ci affida per il nostro bene. Accogliere il Signore negli altri e attraverso gli altri.
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