XV Domenica del Tempo Ordinario 11/07/2021
Commento al Vangelo Mc 6, 7-13
Missione, comunione, fiducia. Penso che ogni meditazione, ogni “lectio divina” che possiamo fare, alla fine, ruoti attorno a queste tre parole. La Carità, che è l’espressione più alta e grande della nostra appartenenza a Cristo, sorge come la consequenziale armonia di questi tre fattori; d’altronde, il vero Amare, consiste nell’andare incontro a qualcuno (missione, da “mitto” latino che vuol dire inviare ma anche dedicare, quindi essere inviati perché dedicati da qualcuno verso qualcosa), intessere un legame di amicizia, unità, fraternità (comunione) e vivere sulla fiducia, certezza che la nostra vita non è in mano al “nulla”.
Tutto il Vangelo di Marco è una scuola di missione per i discepoli di Gesù, un continuo riferimento all’essere chiamati, affidati e inviati. Innanzitutto Gesù chiama sovranamente e liberamente, in piena obbedienza al Padre, singoli uomini (cf. Mc 1,16-20; 2,13-14); i discepoli, a loro volta, accolgono il dono di Dio che li raggiunge inaspettatamente attraverso quel Profeta e Maestro di Galilea.
Gesù fa poi di questi individui una comunità: “Gesù chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne istituì Dodici – numero che richiama quello delle tribù di Israele presenti al Sinai per l’alleanza con Dio (cf. Es 24,4) – perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-15).
Una comunità, questo lo strumento della Salvezza e della Redenzione. Non possiamo pensare che l’altro sia per noi un ostacolo; non apparteniamo a noi stessi ma a Qualcuno che si rende presente a noi attraverso volti, storie, vite concrete.
Tutto questo, però, non è dovuto e non è “un vuoto a perdere”: è un dono. I doni si accettano, si rifiutano, si possono utilizzare o mettere in un cassetto credendoli inutili o fuori luogo; un dono è una “Provocazione”: io ti dono qualcosa e ti comunico un sentimento, mi muovo verso di te, tu che vuoi fare?
Così dobbiamo leggere il significato più intimo delle parole di Gesù: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”.
Andarsene non è la conseguenza di un’offesa ma il rispetto della libertà: non hai voluto il mio dono, vuol dire che non ti aspetti nulla e se non ti aspetti nulla vuol dire che nel tuo cuore nascondi la durezza del cinismo, hai preferito cedere alla facile spiegazione che tutto è inutile, che alla fine nulla ha senso: ognuno per se e Dio per tutti, come recita l’adagio, ma l’adagio è falso perché Dio agisce per tutti se agisce per me e attraverso di me arriva a te, a noi, a voi, a tutti: non puoi esimerti, non puoi derogare, devi essere disponibile.
In cosa consiste la testimonianza data dallo scuotimento dei piedi?
Sappiamo che i rabbini comandavano ai giudei di scuotere la polvere dai loro piedi quando tornavano in Palestina dalle città pagane. I pagani erano considerati impuri e scuotere la polvere dai piedi significava sbarazzarsi di ogni elemento di impurità, perfino la terra affinché non rimanesse sotto i piedi, per poi entrare nelle case degli ebrei e contaminare cose e persone.
Vista così, comprendiamo che Gesù rispetta la libertà di chi rifiuta l’annuncio del Vangelo ma difende, allo stesso tempo, la purezza della Parola e indica ai discepoli di non mettersi “a compromesso” con ciò che è impuro perché si rischia di “impolverarci” e la polvere è sottilissima, si insinua in spazi piccolissimi, penetra e si depone quasi in maniera invisibile ma ostruisce il nostro respiro (annuncio), ostruisce le nostre orecchie (ascolto), alla lunga si solidifica e diventa uno strato duro da sciogliere. Non possiamo permetterci questo e il Signore lo sa, tanto da trasformare questa stessa nostra difesa in una testimonianza per loro: così sarà per te nell’ultimo giorno, come per questa polvere oggi, ma per te lo sarà per l’eternità.
Vi raccontavo, proprio qualche domenica fa, di questa disposizione del governo kuwaitiano che prevede l’allontanamento dal Paese per i cittadini stranieri a compimento del sessantesimo anno di età. Sei considerato vecchio, non produttivo e un costo per il sistema sociale dell’emirato.
Nella mentalità odierna, non fa una piega; siamo imperniati di un liberismo sfrenato che in funzione del prodotto e del risultato ammette moralmente ogni atto possibile. Non si guarda nemmeno allo stesso imbroglio che risiede in questo ragionamento: se la forza lavoro è quasi totalmente straniera, vuol dire che questi “anziani” appartengono alla quasi totalità delle famiglie di chi lavora, sono genitori, nonni. Dove potranno andare se sono emigrati qui da paesi in guerra, povertà estrema, lasciando tutto alle loro spalle? Libano, India, Filippine, Bangladesh e altri paesi ormai “off limits” per loro. Significa che, in blocco, ogni famiglia dovrà andar via per cercare lavoro e vita altrove, perché i figli non abbandoneranno genitori e nonni alla frontiera ma li porteranno con loro e l’emirato perderà popolazione ormai stabilizzata (gli anziani) e forza lavoro (giovani). Inutile dire che questo provvedimento colpirà tantissimi fratelli cristiani che si troveranno, nel silenzio e forse nell’oblio di questo luogo, a scuotere la polvere dai loro piedi in una metafora molto plastica della loro vita. Infermieri, badanti, lavoratori, artigiani, padri e madri (vi assicuro che amare i figli e il proprio coniuge può diventare una testimonianza enorme) così apprezzati per le loro capacità, saranno messi alla porta per la durezza di quella polvere. Tutto il lavoro svolto e il bene fatto sembreranno essere stati inutili ma sarà una sensazione, come dice Miriam: “il bene è Bene e non si perde perché quando lo ricevi, prima o poi, ti fa interrogare: perché a me? Cosa ho fatto? L’importante è che non arrivi tardi il desiderio della risposta”.
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