XXIII Domenica del Tempo Ordinario 05/09/2021
Commento al Vangelo Mc 7, 31-37
Il testo evangelico di questa domenica è molto breve e, generalemnte, siamo tentati di pensare che possa essere più “semplice” capire ed ascoltare quanto il Signore voglia dirci, ma non è così. Testo breve, meditazione ancor più lunga, potremmo dire.
Gesù lascia la regione di Tiro e, passando attraverso il territorio di Sidone, va oltre il lago di Tiberiade, nel territorio della Decapoli. Il suo viaggiare fuori della Galilea, della terra santa, in regioni abitate da pagani, ha un preciso significato: indicare un metodo ai suoi discepoli. Più volte il Signore afferma che Lui è venuto solo per le pecorelle di Israele; non perché non gli importi dei pagani, ma perché siamo chiamati a capire la missione che viene affidata, a noi cristiani, verso tutti perché noi per primi abbiamo ricevuto il Vangelo, il battesimo pur non essendo parte del popolo di Isarele.
Questi sei versetti ci aprono un orizzonte, realmente: “Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente”.
In terra di pagani, di coloro cioè che non conoscono Dio, che hanno fatto degli idoli adorando falsi dei, senza avere un rapporto personale con il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, Gesù si rapporta proprio con una persona che ha fisicamente le stesse mancanze del suo cuore: non può ascoltare e non può parlare.
La condizione del pagano, e ciascuno di noi può diventarlo se non vive nello Spirito del Vangelo e nella Grazia dei sacramenti, è quella specifica di non saper ascoltare la Parola di Dio e, di conseguenza, non poterla comunicare. Il pagano è un’anima impedita, che non spicca il volo, che si incrosta su un limite invalicabile dell’esistenza umana che lo porta alle soglie della “goliardia spirituale” fino a che, drammaticamente, può trasformarsi in cinismo.
Allo stesso tempo, però, questa condizione di disabilità spirituale può diventare un volano di ricerca della verità: da dove vengo? Dove vado? Cosa cerco? Che senso ha la mia vita? Ci sembrano scontate queste cose, ma il nostro tempo è più che mai il tempo di un neopaganesimo di ritorno, perché l’eresia pagana, gnostica, è l’insidia più frequente tra di noi, la più pericolosa, perché si insinua mascherata di buoni propositi, di tanto sentimentalismo, di tanta goliardia (quella “simpatica” modalità di ridere di tutto, sbeffeggiando la serietà della Verità, che rende socialmente superiori i delatori di una ragione aperta al soprannaturale, spingendoci a credere che alla fine, il relativismo sia il miglior “accordo” pacifico con chi la pensa diversamente da noi). E ciò ci assopisce tanto da non accorgerci neanche del nostro arretrare nel cammino della fede.
Questo pagano si presenta a Gesù perché portato da altri che gli chiedono di compiere il gesto tipico della vicinanza dello Spirito Divino: imporgli le mani. Questa è l’occasione propizia per Gesù per dimostrare ai discepoli il loro compito. Prende in disparte quell’uomo: l’incontro con Dio non è uno spettacolo da circo; quella folla vorrebbe assistere ad una celebrazione circense di questo bravo mago di cui si sente parlare e Gesù non vuole che quell’uomo diventi oggetto di tale goliardia: ciò che cerca è l’intimità del suo cuore, della sua libertà.
Gli pose le dita negli orecchi: quell’uomo deve sciogliere il tappo del dolore, della rabbia, della durezza della vita per poter ascoltare Dio che sta di fronte a lui; deve poter mettersi nella posizione a “tu per tu” con Dio, ascoltare, far sciogliere quella rabbia, e Gesù lo fa accarezzando le sue orecchie, un gesto paterno che indica non soltanto la guarigione, ma anche un incoraggiamento: sei pronto, non temere!
Con le dita tocca la sua saliva e poi la lingua di quest’uomo: un gesto estremamente audace, ci respinge quasi. Questo è lo “schiaffo” più grande alla visione apotropaica degli ebrei quanto a quella materialistica ed edonistica dei pagani. Dio è umanità, condivisione e carità totale dei bisogni dell’uomo; è come se per sciogliere il nodo della sua lingua lo baciasse, un’immagine simbolica del Cantico dei Cantici che ci manifesta il rapporto di Cristo con la sua Chiesa: libera di ascoltare, amata così tanto che la sua parola diventi annuncio di salvezza. Ma non basta.
“Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»”.
Questo è il gesto della piena compartecipazione di Gesù alla sofferenza dell’uomo: il Salvatore che grida verso il Cielo la preghiera che il Padre attende e che esaudirà: Apriti! Cioè sei libero, adesso tutta la tua persona non è più annodata in se stessa, non è più rigida nell’estremo tentativo di difendersi costantemente dalla realtà, ma può stare in piedi, ascoltare, parlare: sei pienamente figlio di Dio! Le stesse parole con cui il sacerdote conclude la liturgia battesimale dei bambini: Effata!
Puoi ricevere il Vangelo, ricevere la Grazia, annunciare la Salvezza!.
“E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano”. Come si spiega? Tutta questa insistenza nell’aprire orecchie e bocca di quest’uomo, invitarlo ad ascoltare ed annunciare e poi il comando di tacere tanta Grazia?
La reazione della gente ne da spiegazione. Gesù chiede il silenzio perché questo compito dovrà essere il compito degli Apostoli, chiamati appunto ad essere ambasciatori (questo vuol dire in greco il sostantivo) del Vangelo; loro dovranno convertire i pagani, essere la voce di Cristo nel mondo: Lui è venuto per la salvezza di Israele.
Ma i pagani non sono ebrei, non attendono il Messia, non aspettano profeti e, quindi, non possono tacere di fronte allo stupore di un uomo che parla, agisce e si muove cambiando il loro modo di vivere; il pagano se accoglie la Verità diventa immediatamente testimone, non ha filtri, è una “spugna”, ecco perché Gesù si concentra sulle pecore di Israele: loro hanno bisogno di comprendere che il Messia non ha il volto predefinito di scribi e farisei, ma l’umanità e la soprannaturalità di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe il carpentiere.
Il mio pensiero in questi giorni corre spesso nei volti tristi dei primi “anziani” che hanno lasciato e stanno lasciando il Kuwait (per la cosiddetta legge dell’anagrafe), ma, soprattutto, hanno dovuto lasciare i loro cari. Ripartire da zero, per una nuova vita, dopo anni di sacrifici e nell’ingiustizia di una legge che punisce senza una colpa e porta, ad una certa età, a dover lasciare veramente che il Signore ci apra orecchie e bocca, perché si rischia di perdere voglia e senso di ascoltare e parlare. Per tanti di questi fratelli, però, non è così. La fatica, la paura non generano terrore dell’ignoto ma lo stupore di “qualcosa di Buono che Dio sta preparando”. Così dicono, così testimoniano e per me, veramente, è come se mi sentissi dire: Effatà!
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