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Sepoltura dei feti, chi gioca sulle parole e chi sulla vita
NEWS 1 Ottobre 2020    di Andrea Zambrano

Sepoltura dei feti, chi gioca sulle parole e chi sulla vita

A qualcuno deve dare fastidio – e parecchio – la pratica sempre più diffusa delle sepoltura dei feti da aborto, spontaneo o volontario. È quanto si apprende dalla lettura di un articolo del Corriere della Sera a commento di una notizia nata da uno sfogo di una donna. Una mamma, per la verità, solo che già dal titolo si è stati ben attenti a calibrare al millimetro le parole per adempiere alle regole neogrammaticali della neo lingua per il neo pensiero moderno.

La storia è questa: Roma. Una mamma – si, non è solo una donna, ma è una mamma – viene a scoprire che il feto da lei abortito è pronto per la sepoltura in un area del cimitero Flaminio. Rimane sorpresa, non aveva infatti dato il benestare alla sepoltura, ma ciò che la indigna di più è scoprire che la targhetta riconoscitiva del piccolo non è altro che il nome della donna.

Sgradevole, effettivamente, tanto che la donna si appella alla privacy lesa e i soliti Radicali ne approfittano per gridare alla caccia alle streghe: «Quella donna porta il marchio dell’infamia?». È sicuramente un errore dei gestori del cimitero, in applicazione al regolamento mortuario del Comune di Roma.

Il punto è che quell’area è gestita direttamente dai servizi cimiteriali municipali. Però una indelicatezza come questa rischia di creare uno stigma verso il lavoro di quelle associazioni che si sono battute – in Lazio a livello regionale, ma anche in tutt’Italia – per dare degna sepoltura alle vittime – le prime vittime – dell’aborto e creare nei cimiteri italiani queste aree dove il piccolo spesso non viene neanche chiamato per nome, ben sapendo che secondo la pietas cristiana il suo nome è già scritto nei Cieli.

L’articolo però non è servito per denunciare solo una indelicatezza di privacy – peccato però che nessuno si stracci le vesti per l’indelicatezza di uccidere un essere umano nel grembo materno – ma anche per iniziare a puntare il focus indagatore su queste aree. L’articolo infatti spiega che questi spazi sono stati anche mappati in un sito e una rivista britannica addirittura spiega che sono gestite da gruppi di «ultracattolici». Il messaggio è molto semplice: per colpa dei cattolici le donne che abortiscono devono portare il marchio dell’infamia, ferite nella privacy e si vedono seppelliti in un cimitero i loro feti.

Eppure, nel delirio abortista, qualche cosa sfugge, soprattutto la buona fede e lo si evince proprio dalla lingua che ha regole cui spesso l’ideologia non riesce a sottostare. La lingua è in sostanza come quelle mogli che alla fine smascherano sempre il marito fedifrago.

La donna (mamma) infatti ammette che quello «era suo figlio». Come la mettiamo? E ancora. Se la donna (mamma) non voleva saperne del figlio tanto da sbarazzarsene e non occuparsene, perché poi si è dovuta scandalizzare una volta venuta a sapere che qualcun altro si era “appropriato” di quel bambino? Se qualcuno l’avesse chiamato Riccardo – ad esempio – siamo sicuri che la donna non avrebbe gridato al doppio scandalo? Probabilmente sì perché quello che dà fastidio è il continuare a dare a quel feto lo status di essere umano. Parole e convincimenti irrazionali permettono così di giocare a piacimento con la vita e con la morte.

Inutile a questo punto che la giornalista solerte camuffi il tutto come un semplice argomento che riguarda il seppellimento dei “prodotti del concepimento” perché se poco più avanti utilizza la parola cimiteri, vuol dire che stiamo parlando di esseri umani. Esistono cimiteri di oggetti? No, si chiamano discariche o ripostigli o soffitte o robivecchi o autodemolitori. Ma non cimiteri

Da ultimo, già dal titolo è evidente che si voleva spostare l’attenzione: “Hanno seppellito il feto di mio figlio”. Come se il feto fosse qualcosa di staccato dall’essere umano. Un essere umano non figlio. Come un organo. Come “il braccio di mio figlio”, “la gamba di mio figlio”. Neo lingua, per un neo pensiero sgamato da mamma ragione, però.


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