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Senza reggiseno per Rackete. Ciò che resta del femminismo
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26 Luglio 2019

Senza reggiseno per Rackete. Ciò che resta del femminismo

Tutte quante senza reggiseno. E’ il bizzarro motto sulla base del quale sabato, quindi domani, avrà luogo nella città di Torino una manifestazione di solidarietà a Carola Rackete, la giovane tedesca balzata agli onori delle cronache internazionali per essere stata la «capitana» dell’imbarcazione della Ong Sea Watch. L’idea di solidarizzare con costei evitando di indossare il reggiseno è nata come risposta a quanti osato notare che, con notevole disinvoltura, la volontaria teutonica si era presentata alla Procura della Repubblica che l’aveva convocata con addosso, appunto, solamente una maglietta. Una scelta di notevole informalità, in altri tempi si sarebbe detto di maleducazione, che – nelle curiose traiettorie di certo odierno femminismo – è stato subito elevata a gesto di ribellione e di rivendicata libertà femminile.

Ora, massimo rispetto per tutti, inclusa la persona della Rackete naturalmente, però viene da chiedersi se veramente ci sia – in questa sorta di femminismo 2.0 – autentica attenzione ai diritti delle donne. Sì, perché se da un lato assistiamo a manifestazioni di solidarietà così come a battaglie politiche di dubbia priorità – si pensi alla parità di genere linguistica, secondo cui sarebbe consigliabile parlare di «sindaca», «ministra» o «capitana», appunto – dall’altro il silenzio, da parte di quelle stesse paladine, è tombale su questioni drammatiche che hanno che vedere con la dignità femminile offesa. Qualche esempio?

Si pensi tanto per cominciare all’aborto selettivo, in applicazione nel quale – sopratutto in Asia, ma non solo – non a centinaia o a migliaia, ma a decine di milioni di donne è stato impedito di nascere. Una tragedia di cui le cronache ci parlando anche in questi giorni. Nell’Uttarkashi, un distretto dell’India settentrionale di 300.000 abitanti, è per esempio emerso come, negli ultimi 3 mesi, in 132 villaggi, siano nati 216 bambini senza nessuna femmina. Neppure una. Un caso assurdo che ha fatto sobbalzare perfino la magistratura indiana – notoriamente non proprio la più attenta ai diritti umani del mondo -, decisa a vederci chiaro. Ora, di questo peraltro ennesimo scandalo indiano, avete sentito forse qualche femminista occidentale lamentarsi con almeno un telegrafico cinguettio su Twitter? Macché, certo che no.

Esattamente come nessuna politica o femminista italiana – eccettuate luminose e marginali eccezioni, s’intende – si è mobilitata in questi anni contro l’utero in affitto, fenomeno che a lato pratico si configura come un business planetario da miliardi di dollari sulla pelle di donne povere e dei loro figli. Ce ne sarebbe decisamente abbastanza, insomma, per indignarsi, eccome: eppure a tutto ciò, così come a manifestazioni di solidarietà verso donne davvero in pericolo (si pensi alla cristiana Asia Bibi e ai suoi 3.420 giorni di galera ingiusta e disumana), si preferiscono sfilate di dubbio gusto per esprimere vicinanza a giovani volontarie che non corrono alcun pericolo e che, per loro stessa ammissione, sono di condizione benestante e privilegiata.

Per un cattolico, tanto più oggi, le preoccupazioni e le priorità sono ben altre, ovvio. Tuttavia, se si potesse idealmente lanciare un messaggio alle sedicenti paladine dei diritti delle donne, non sarebbe male consigliare loro di occuparsi anzitutto del peggior femminicidio mai perpetrato a memoria d’uomo – quello del citato aborto selettivo, appunto – o della mercificazione della maternità di cui sono vittime innumerevoli donne, soprattutto povere, come si diceva. Certo, per occuparsi di tutto ciò occorre sbarazzarsi di certa ideologia sessantottina e radical chic. Il che, per certo femminismo 2.0, non è affatto scontato. Molto più comodo, in effetti, limitarsi a gironzolare senza reggiseno.

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