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Se l’Africa è la speranza della Chiesa, lo dobbiamo anche alla santa follia di un uomo: Daniele Comboni
NEWS 1 Settembre 2015    

Se l’Africa è la speranza della Chiesa, lo dobbiamo anche alla santa follia di un uomo: Daniele Comboni

«Africa, nuova patria di Cristo. Contributi di pastori africani al sinodo sulla famiglia» è il titolo dell’importante libro presentato ieri dal vaticanista Sandro Magister, edito negli Usa da Ignatius Press e in Kenya dalle edizioni Paoline.

Gli autori sono undici, di cui sette cardinali, gli altri vescovi e arcivescovi. Tutti africani. Un ulteriore segno  del crescente protagonismo della Chiesa nel continente nero e della sua missione per la cattolicità tutta. Ovvero, come ha detto il cardinale Sarah nel suo recente viaggio in Benin: «Ho un’assoluta fiducia nella cultura africana, ho una fede assoluta nella fede africana e sono certo che l’Africa salverà la famiglia, che l’Africa salverà la Chiesa. L’Africa ha salvato la Sacra Famiglia, in questi tempi moderni salverà anche la famiglia umana».

Di fronte a questo scenario inedito, a questo “soccorso epocale” vale la pena ricordare e conoscere il pioniere dell’evangelizzazione africana, colui che per primo o quasi piantò un seme divenuto dopo un secolo e mezzo più che un albero, una imponente foresta in crescita: san Daniele Comboni.

Di seguito gli stralci di una relazione – pubblicati dall’Osservatore Romano – che lo storico Gianpaolo Romanato leggerà alla XXXVII Settimana di Storia religiosa euro-mediterranea, che  si tiene dal 2 al 5 settembre alla Villa Cagnola di Gazzada, in provincia di Varese. Qui invece un bellissimo articolo su san Daniele Comboni  scritto a suo tempo da Francesco Agnoli.

di Gianpaolo Romanato

 

Fino alla metà del xix secolo l’Africa era ancora un continente quasi totalmente sconosciuto. Dal deserto del Sahara fino alla zona del Capo non se ne sapeva praticamente nulla. La geografia, la storia, le popolazioni che la abitavano, le lingue che vi erano parlate, le forme sociali ed economiche, il corso dei fiumi, l’orientamento e l’altezza delle montagne, la presenza o meno di laghi continuavano a essere avvolti dal buio. Sulle carte geografiche questo smisurato buco nero era spesso indicato con l’espressione terra incognita.

L’ignoranza dell’Africa da parte dell’Europa ha molte giustificazioni: i difficili approdi marittimi, il clima caldo e irrespirabile, le malattie che la rendevano invivibile per gli europei, la vegetazione impenetrabile, la difficile navigabilità dei fiumi, la barriera desertica e il monopolio esercitato dagli arabi sulle vie commerciali. C’è stata poi la pagina vergognosa della tratta degli schiavi, che per secoli ha fatto apparire l’Africa un semplice serbatoio di manodopera, per il cui approvigionamento bastavano le basi costiere, senza necessità di spingersi all’interno.

Rimane però ugualmente motivo di stupore il fatto che questo continente immenso, così vicino all’Europa, sia rimasto tanto a lungo al di fuori della sua attenzione. La nozione dell’Africa comincia a cambiare tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dopo la nascita dell’African Association, nel 1788 a Londra. Le stupefacenti trasformazioni che caratterizzarono il periodo storico coincidente con l’avvio dell’industrializzazione e la rivoluzione in Francia cambiarono la percezione dello spazio extraeuropeo. La campagna d’Egitto di Napoleone, che diede origine al progetto del taglio dell’Istmo di Suez, proiettò per la prima volta, concretamente, l’attenzione delle grandi potenze sulla costa nordafricana e sul Mar Rosso. Ebbe origine allora quel processo di allargamento dei mercati e di integrazione dei continenti nel quale dobbiamo vedere le lontane origini di quella che oggi chiamiamo globalizzazione.

Da quel momento l’ignoranza che circondava i territori africani cominciò a essere percepita come una lacuna. Iniziarono allora i viaggi esplorativi che un po’ alla volta, lentamente e al prezzo di molte vite umane svelarono i mille misteri del dark continent, dove il dark si riferiva sia al colore della pelle degli africani sia al buio che circondava le terre da essi abitate. L’esplorazione dell’Africa occuperà un secolo intero, e anche di più. Solo alla fine dell’Ottocento infatti si potrà disporre di carte geografiche attendibili e sicure, fondate su dati verificati e non su interpretazioni fantasiose o su approssimative induzioni.

Le esplorazioni africane saranno una delle grandi epopee ottocentesche, inesauribile alimento della fantasia di un secolo che credeva fermamente nell’ardimento dell’uomo: il dovere della civilizzazione giustificava il diritto alla conquista. Frutto di quella sicurezza saranno sia la stagione dell’imperialismo e del colonialismo, che in pochi decenni porteranno due continenti — l’Africa e l’Asia — nell’orbita politica europea, sia l’imponente letteratura di viaggio che riempirà le librerie e la fantasia di almeno tre generazioni: i diari e le memorie di esploratori come Samuel Baker, Georg Schweinfurth, David Livingstone, Henry M. Stanley; i romanzi popolari di Jules Verne e Emilio Salgari; la grande narrativa di Joseph R. Kipling e Joseph Conrad.

Nel 1846 la Santa Sede, prima “potenza” europea a interessarsi concretamente dell’Africa, aprì il Vicariato apostolico dell’Africa Centrale, una circoscrizione ecclesiastica con competenza virtualmente su tutta l’Africa interna a sud del Sahara fino all’equatore, e anche oltre. Contemporaneamente Propaganda Fide dava vita al vicariato dei Galla in Etiopia, affidato al vescovo Guglielmo Massaja, mentre quattro anni prima era stato fondato, sulla costa atlantica, il vicariato apostolico delle due Guinee, destinato ai missionari francesi.

Il vicariato dell’Africa Centrale fu raggiunto dai primi missionari nel 1848. Operò lungo il corso superiore del Nilo, in uno sterminato territorio, corrispondente al Sud Sudan di oggi, che va sostanzialmente dalla città di Khartoum all’odierno confine tra Sudan e Uganda. L’impresa fu gestita fino alla sua morte, avvenuta nel 1858, da un missionario austriaco di origine slovena, Ignaz Knoblecher, una grande figura, sia come religioso sia come uomo di cultura, che gli studiosi sloveni hanno scoperto negli anni recenti. Sospeso nel 1863 a causa dell’impressionante mortalità verificatasi fra i missionari, fu riaperto nel 1872, quando ne divenne titolare Daniele Comboni, che morirà a Khartoum nel 1881.

In questo arco di tempo i missionari, prima sotto la guida di Knoblecher e poi di Comboni, essendo costretti a muoversi in un territorio sconosciuto, senza punti di riferimento e senza carte geografiche, dovettero trasformarsi anche in esploratori. Essi posero le basi della missione stabile che si è prolungata fino ai nostri giorni, ma recarono anche un decisivo contributo alla conoscenza e alla descrizione della regione sul piano geografico, cartografico, linguistico ed etnologico. L’importanza del loro apporto fu riconosciuta da tutti i maggiori esploratori, che citano ampiamente i missionari nei diari e resoconti dei loro viaggi. Si tratta di un capitolo glorioso, ancora sostanzialmente sconosciuto, della storia missionaria in Africa.

Comboni era nato a Limone, sulla sponda bresciana del lago di Garda, nel 1831. Studiò a Verona, città allora austriaca, dove era viva una forte sensibilità missionaria, e scese in Africa una prima volta nel biennio 1857-1859, con altri missionari veronesi. Operò in una sperduta missione dell’Alto Nilo, denominata Santa Croce, rischiò di morire di malaria e fu rimandato in Italia per recuperare la salute.

L’Africa però gli era entrata nel sangue e nel cuore, per cui spese gli anni successivi allacciando contatti in Italia e in Europa per tessere una trama capace di sostenere umanamente e finanziariamente il progetto missionario cui stava pensando. Il progetto fu elaborato definitivamente nel 1864 quando Comboni pubblicò il Piano per la rigenerazione dell’Africa, un testo geniale, soprattutto per la valorizzazione degli africani che proponeva proprio nel momento in cui in Europa esplodeva la febbre coloniale, al quale si ispirò più tardi anche il francese cardinale Charles Lavigerie, vescovo di Algeri e fondatore dell’istituto missionario dei Padri Bianchi.

Qualche anno dopo Comboni fondò a Verona un piccolo istituto missionario, prima maschile e poi femminile, e contemporaneamente un istituto in Egitto, al Cairo, dove i suoi missionari avrebbero dovuto perfezionare la preparazione linguistica e culturale, abituandosi lentamente al clima africano, che allora stroncava tutti gli europei. Ancora oggi i missionari comboniani sono chiamati in Africa con l’espressione Verona fathers. Negli stessi anni diede vita anche a una rivista: quella che ancor oggi si pubblica mensilmente a Verona, «Nigrizia», unica rivista italiana interamente dedicata all’Africa.

Il vicariato dell’Africa Centrale era stato chiuso dalla Santa Sede nel 1863, scoraggiata dall’esiguità dei risultati e dall’impressionante mortalità verificatasi tra i missionari. Fu riaperto nel 1872 in seguito alle insistenze di Comboni e affidato alle sue cure.

L’anno seguente Comboni tornò in Africa e da allora la sua vita assunse un ritmo frenetico, con viaggi continui dall’Africa in Europa e viceversa. Viaggi che fiaccarono definitivamente il suo fisico, pur fortissimo. Il viaggio non durava mai meno di due mesi, con temperature che nel deserto della Nubia potevano superare i cinquanta gradi centigradi. Mentre nel primo periodo la missione si era sviluppata nell’Alto Nilo, una regione particolarmente malsana, Comboni preferì indirizzarla verso la regione del Kordofan, a ovest di Khartoum, sia per le migliori condizioni climatiche, sia perché sapeva che le popolazioni del Kordofan erano più docili e più facilmente avvicinabili, non essendo state ancora corrotte e incattivite dal contatto con gli europei.

Nei sette anni che gli restarono da vivere, Comboni divenne una delle massime autorità europee sull’Africa, interpellato e stimato da tutti gli africanisti del continente. Fu in stretta relazione anche con il colonnello Charles Gordon, mitica figura degli esordi del colonialismo britannico, allora governatore del Sudan per conto del Governo egiziano. Il missionario portò in Africa anche le suore, sottoponendole agli stessi viaggi massacranti cui sottoponeva se stesso e lasciando loro la responsabilità di autogestirsi in un ambiente ostile e sconosciuto. Fu certamente un precursore di quella che oggi chiamiamo cultura del femminismo. Morì a Khartoum, stroncato dalla fatica e dalle malattie, nel 1881, alla vigilia della rivolta mahdista che sradicherà la missione e gran parte delle realizzazioni comboniane. Non si salvarono neppure i suoi resti, estratti dalla tomba dai rivoltosi e dispersi.

I missionari di Comboni tornarono in Sudan nel 1898, dopo la sconfitta dei mahdisti a opera degli inglesi. Dopo il loro ritorno si allargarono dal Sudan ad altri Paesi africani, mentre negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si insediarono anche in America, mentre Comboni fu proclamato prima beato, nel 1996, e poi santo, nel 2003.

La fretta quasi incredibile, che mostrò sempre, di avviare la sua opera, una fretta che lo spinse ad andare sempre avanti, benché fosse ben consapevole di tutti i limiti e le improvvisazioni dell’organizzazione di cui disponeva, era legata al fatto che, vivendo in Egitto e in Sudan aveva colto perfettamente la forza della spinta islamica verso sud e la disponibilità dell’Africa nera a farsene catturare.

In breve, nella visione missionaria di Comboni non c’era soltanto lo zelo romantico di un sacerdote della Restaurazione per la diffusione della salvezza di Cristo, ma c’era anche la lucida, concreta intuizione dei complessi rapporti fra civiltà e religioni di cui il futuro, sia lontano che immediato, avrebbe fornito ampie conferme, proprio a partire dal Sudan.

L’Islam ottomano e decadente conosciuto da Comboni non era certo quello di oggi, tuttavia egli vi scorse fin da allora tutte quelle potenzialità che solo in seguito sarebbero emerse. Indubbiamente egli non può ritenersi un precursore dell’odierno dialogo interreligioso, anzi, è proprio l’opposto, ma la sua visione del rapporto fra cristianesimo e islam, assolutamente spontanea, espressa senza preoccupazioni né filtri in tempi non sospetti, non è per questo meno degna di considerazione.

Il metodo che seguiva puntava a imporre la missione come centro di civilizzazione, per poi passare, solo in un secondo momento, all’evangelizzazione. Prima era necessario, per il missionario, farsi accettare, conquistare la fiducia dei locali, dare alla popolazione la sensazione dell’utilità reale e non fittizia della sua presenza. In tutta questa fase era fondamentale tanto la credibilità delle persone, il loro comportamento retto, quanto la residenza costante nel luogo d’operazione.

La diversità fra missionari ed esploratori è netta. Rispetto agli esploratori, scrive, «che arrivano affranti dalle fatiche di disastrosi viaggi, talvolta pieni di paura, sempre senza conoscere né persone né lingue», e cercano «ogni mezzo per ritornarsene in Europa», il «missionario e la suora patiscono volentieri e stanno fermi al loro posto», dovendo spesso assistere lo stesso esploratore, fornirgli «aiuto e consolazione». Per questo l’influsso degli esploratori era incomparabilmente inferiore rispetto a quello dei religiosi.

Ottenuto il primo scopo, cioè la fiducia della gente si passava al secondo momento, quello dell’inizio dell’opera di civilizzazione. In che modo? Attraverso le scuole e gli ospedali. Diffondendo cioè l’istruzione, fornendo le prime competenze, curando le malattie, insegnando le norme igieniche elementari. Le varie stazioni missionarie si fondarono tutte su questo modello, con risultati che in un luogo come il Sudan furono immediatamente visibili. L’arsenale governativo di Khartoum, che costruiva le imbarcazioni per la navigazione sul fiume, trasse gran parte dei suoi circa duecento operai dalla scuola fondata in loco dalla missione.

Il terzo momento era costituito dal tentativo di introdurre il modello familiare cattolico, possibilmente favorendo matrimoni fra neri educati entrambi dalla missione. Questi vi affluivano in vario modo: erano ragazzi abbandonati che venivano raccolti e ospitati, oppure, e quest’ultimo rappresentava il serbatoio più prolifico, si trattava di schiavi che i missionari o “comperavano” (a Khartoum c’era un regolare mercato di schiavi neri), o riscattavano dal loro stato, o accoglievano valendosi del diritto di asilo che era riconosciuto alla missione dai trattati sottoscritti dal governo egiziano con i consolati europei.