Nei secoli l’anima è stata utilizzata da ogni civiltà per esplorare la coscienza, la spiritualità, la vita oltre la morte, il rapporto con Dio. Ma se è vero che all’origine di tutte le parole che indicano l’anima c’è il respiro e il vento (il greco ánemos, «vento»; il sanscrito ániti, «egli soffia»; l’ebraico nefesh che rappresenta l’anima con il pittogramma di trachea e polmoni stilizzati; il verbo greco psýchô, «soffiare»), è altrettanto vero che per la dottrina cristiana l’anima è qualcosa di definibile, “preciso”, che però la teologia moderna sta facendo scomparire. Il viaggio intorno all’anima intrapreso in queste settimane dal Timone – che passa per l’opera di don Roberto Tavelli sull’anima in Teresa d’Avila e arriva fino alla pubblicazione del libro di Francesco Agnoli L’anima c’è e si vede – continua oggi con una densa intervista al teologo bresciano Angelo Pizzetti, sacerdote che si divide tra studi teologici (quelli sul “destino ultimo” e sulla “visione di Dio”), l’insegnamento e il servizio pastorale presso il santuario mariano di Fontanelle, a Montichiari.
Don Pizzetti, come spiega che l’anima sembra quasi essere scomparsa dal dibattito teologico del XX secolo? «Tutto ha inizio con un libro di Oscar Cullmann dal titolo Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti? In quest’opera – che ha fatto scuola – il teologo luterano sosteneva che nella Bibbia non si parla dell’immortalità dell’anima ma della resurrezione dei morti».
E invece? «L’errore è nel fatto che la resurrezione dei morti non esclude affatto l’immortalità dell’anima. L’annuncio della resurrezione non nega che nell’uomo ci sia anche un elemento spirituale che rimane dopo la morte e che si chiama anima».
È ciò che afferma la dottrina cattolica. «Certo. Il Magistero ribadisce che il destino ultimo dell’uomo è la resurrezione, ma è di tutta evidenza che nel momento della morte il corpo diventa un cadavere. A permanere dunque è l’anima, che è soggetta subito ad un giudizio particolare, quello riguardante la destinazione: paradiso, purgatorio o inferno. Solo alla fine della Storia ci sarà la resurrezione dei corpi, in cui questi si riuniranno all’anima. La resurrezione, va ribadito ancora, non esclude affatto l’immortalità dell’anima».
Sarebbe interessante capire come Cullman arrivi a negarla… «Per il teologo, come per la stragrande maggioranza della teologia moderna, il concetto di anima e corpo come due realtà è un’idea che viene dal pensiero greco, per cui da rigettare. Sarebbe dunque un concetto platonico, estraneo alla Bibbia. Insomma, biblicamente l’uomo sarebbe “intero”, per cui quando muore, morirebbe, appunto, tutto intero».
Ma teologicamente non si rischia così di “far fuori” l’anima? «Assolutamente sì. Non solo si finisce per negare l’anima, ma la cosa trascinerebbe con sé una serie infinita di aporie in contrasto col Magistero. Una su tutte: se al momento della morte muore “tutto” l’uomo, alla fine dei tempi non si dovrebbe più parlare di resurrezione, bensì addirittura di una nuova creazione. Tutto ciò non può reggere dottrinalmente. Per aggirare l’ostacolo si è introdotta la teoria della “resurrezione nella morte”, secondo la quale al momento della morte tutto l’uomo entra subito in un’eternità concepita come senza tempo. Tuttavia neanche Cristo è risorto nella morte, ma dopo tre giorni».
A chi o a cosa dobbiamo che il Magistero, sul punto, non sia ancora cambiato? «Oso dire innanzitutto che non è scontato che dal punto di vista dottrinale le cose non siano ancora cambiate, poiché la teologia dell’ultimo secolo, più o meno apertamente, è tutta spostata nel negare il supposto platonismo. Pensi che in un primo momento, per sua ammissione, perfino Ratzinger è stato vicino a queste posizioni, al tornare cioè all’uomo “tutto intero” senza il presunto dualismo corpo-anima, che poi non è un dualismo ma semmai una dualità».
E poi cosa è successo al futuro Benedetto XVI? «È accaduto – lo racconta lui stesso – che approfondendo lo studio ha capito che la Tradizione sul tema dell’anima aveva le sue profonde e inoppugnabili ragioni. Bellissime le parole che usa nella prefazione al suo fondamentale Escatologia. Morte e vita eterna, opera in cui, parlando del suo tentativo giovanile di costruire un’escatologia “deplatonizzata”, scrive che immergendosi nelle fonti “le antitesi costruite mi si sbriciolavano tra le mani”, mentre “mi si rivelava la logica interiore della tradizione ecclesiale”. Un’onestà intellettuale impagabile e commovente».
Solo il teologo Ratzinger ha avuto il coraggio di tornare indietro? «Sono stati davvero pochi a non seguire la vulgata di Cullmann, Stange, Althaus, Barth, Brunner. Sta di fatto che Joseph Ratzinger in Escatologia, opera – per sua ammissione – “frutto di due decenni di studio”, spende pagine definitive sulla difesa dell’anima, ricordando con dolore come perfino la liturgia è stata pesantemente inficiata dalla sua sostanziale negazione. Riporto un passaggio emblematico del suo libro: “L’opinione che parlare dell’anima non sia un discorso biblico, s’impone al punto che perfino il nuovo Missale Romanum del 1970 ha bandito il terminus ‘anima’ dalla liturgia dei defunti; parimenti esso è scomparso dal rituale della sepoltura”».
Ma davvero l’apparente idea biblica di “interezza dell’uomo” ha potuto, da sola, spazzare via un’idea di anima così saldamente ancorata nella dottrina cattolica? «In effetti c’è altro dietro la “scomparsa” dell’anima dall’attuale teologia, ed è stato sempre Joseph Ratzinger a spiegarlo. La concezione definita “biblica” dell’assoluta indivisibilità dell’uomo coincide con la moderna antropologia naturalistica e con le neuroscienze, che vedono nell’uomo nient’altro che un corpo, e che nulla vogliono saperne di un’anima che può separarsi da esso. Insomma, rinunciare all’anima immortale nell’ottica di molti teologi eliminerebbe un punto di conflitto tra la fede cristiana e il pensiero moderno».
Teologi di grido che si muovono alla don Abbondio… «Di più. Siamo di fronte ad una banalità e, insieme, ad una resa gratuita, anche perché rimarrebbero in piedi molti altri punti del cristianesimo che la modernità non sarebbe disposta minimamente ad accettare».
Per esempio? «Per rimanere soltanto al nostro tema, la stessa resurrezione dei corpi. Mi chiedo, a che vale la teologia se guadagna il mondo ma… perde l’anima?».
Maria ha un ruolo nella difesa della dottrina cristiana sull’anima? «Ha un ruolo centrale e spiego perché. La Madonna, ovviamente con Gesù, è la sola persona risorta in anima e corpo. Il Magistero ha richiamato il suo privilegio nell’unico dogma proclamato del XX secolo, quello dell’Assunta. Maria, dunque, ha il “privilegio” di essere stata già assunta in cielo in anima e corpo, a differenza di tutti gli altri uomini, per i quali la resurrezione del corpo dovrà attendere la fine del mondo, la parusìa. Se seguissimo la tesi per cui la resurrezione completa avviene già alla morte, allora il dogma dell’Assunta non avrebbe più senso. Se tutti risorgono dalla morte non ci sarebbe stato bisogno del dogma, Maria sarebbe come tutti gli altri. E così non è».
Non fa una grinza. Qualcuno ha messo in dubbio anche questo? «Sì. Non a caso nel 1979 dovette muoversi la Congregazione per la Dottrina della Fede. Rispondendo ad alcune teorie teologiche che circolavano dopo il Concilio, come appunto la risurrezione dei defunti nel momento stesso della morte, la Congregazione emise un documento in cui affermava che “la Chiesa […] esclude ogni spiegazione che toglierebbe il suo senso all’Assunzione di Maria in ciò ch’essa ha di unico, ossia il fatto che la glorificazione corporea della Vergine è l’anticipazione della glorificazione riservata a tutti gli altri eletti”».
Quali conseguenze può avere la negazione dell’immortalità dell’anima? «Un’infinità. Scusi, se la resurrezione avviene al momento della morte, allora perché preghiamo per i defunti? La negazione dell’immortalità dell’anima (e quindi, alla fine, dell’anima tout-court), come per un effetto domino demolisce dall’interno gran parte della fede cristiana».
Lei presta servizio come confessore nel Santuario diocesano di Fontanelle, a Montichiari, in cui la Madonna apparve come Rosa Mistica. Il popolo che incontra in quella che Vittorio Messori definì “Piccola Lourdes” come vive queste alte questioni teologiche? «Alle Fontanelle o in qualsiasi posto di devozione popolare mariana si scorge una fede semplice e viva, mentre purtroppo il mondo accademico è abbastanza lontano dalla vita reale. Mi spiego. Il punto di partenza della teologia dovrebbe essere quella che Tommaso d’Aquino chiama “la fede della vecchietta”, ma così non è. Anzi, la fede popolare viene spesso derisa».
Sta dicendo che anche dall’“interno” servirebbe più rispetto per la fede del popolo? «Certo, anche perché poi, viste da vicino, le cose sono molto diverse. Mi viene in mente la testimonianza del filosofo Fabrice Hadjadj, che da ateo convinto entra in una chiesa e ride degli “ex voto” alle pareti; uscito da lì riceve la notizia che il padre è in fin di vita, torna dentro e chiede in ginocchio la grazia. “Mi sono convertito a Maria prima di convertirmi a Dio”, dice Hadjadj. Voglio dire che la fede autentica abbraccia tutto, mentre certa teologia razionalistica spesso non è in grado di accogliere, di nutrire la fede, ma solo di instillare dubbi».
Da teologo si sente privilegiato a vivere un santuario mariano? «Sì, sono un sacerdote decisamente privilegiato perché posso toccare con mano, specie in confessione, come Dio agisce e come compie il miracolo della conversione. Un santuario mariano è un osservatorio unico, in cui si vede concretamente come il Signore opera con potenza nelle persone. Frequentando un santuario e calandosi nella fede del popolo non si potrà mai dubitare dell’esistenza dell’anima e della grazia di Dio». (Foto: tela di William Adolphe Bouguereau)
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