Il popolarissimo giornale francese “Le Monde” ha dedicato in questi giorni un lungo servizio alla vicenda di Kim Phuc, la «Napalm girl», e sul suo percorso molto travagliato. Kim Phuc è stata per molto tempo “la bambina del napalm”, divenendo suo malgrado un simbolo della guerra e delle sue vittime. Al di là della sofferenza fisica, ha dovuto perciò sopportare d’essere costantemente ridotta allo stato di vittima; questo prima di raggiungere il Canada e trovare una forma di felicità.
Infatti, Kim ha sempre odiato lo scatto che la immortalava come vittima, con cui il fotografo Nick Út vinse il premio Pulitzer, scatto che peraltro, in seguito, fu scelto pure come World Press Photo of the Year, nel 1972; in un certo senso, quindi, la Phuc odiava sé stessa. Per molto, molto tempo ha provato rabbia, amarezza e persino disperazione. «Sì, puoi scriverlo: “disperazione”», ha dichiarato infatti al giornalista della testata francese. Poi però un giorno le cose sono cambiate, come afferma un passaggio di “Le Monde” che riportiamo integralmente:
«…Nascosta in una biblioteca, si è tuffata nel Nuovo Testamento. Il caodaismo, il sincretismo delle religioni più antiche che porta alla venerazione di molte guide spirituali, era il culto seguito dalla sua famiglia. Ma quel giorno scoprì il cammino di Gesù, “questo messaggero di Dio che tanto aveva sofferto”, era stato picchiato, insultato, torturato e portava molte cicatrici. Si disse che solo lui poteva aiutarla a trovare un senso nella propria sofferenza e si convertì al cristianesimo. Si sentiva amata da questo Dio compassionevole». (Fonte)
Questa vicenda, simile a molte altre, anche se riguarda una protagonista d’eccezione del ‘900, dimostra un fatto di rilievo: solo le sofferenze di Cristo riescono a sollevare l’uomo dalle proprie; solo il Cristianesimo, dà un significato a dolore. Indicando, con Gesù, la via della speranza e della rinascita.
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