Con la prossima beatificazione di don Luigi Lenzini il Triangolo rosso ha il suo primo sacerdote martire riconosciuto tale dalla Chiesa. Papa Francesco ieri ha ricevuto in udienza Monsignor Marcello Semeraro, neo Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Durante l’udienza, il Pontefice ha autorizzato la Congregazione a promulgare i Decreti riguardanti diversi servi di Dio. Tra questi è stato riconosciuto il martirio del Servo di Dio Luigi Lenzini, Sacerdote diocesano; «Ucciso, in odio alla Fede, a Crocette di Pavullo (Italia) nella notte tra il 20 e 21 luglio 1945». Così recita lo scarno comunicato del Vaticano.
Si tratta di una notizia di straordinaria importanza perché dopo la beatificazione del seminarista Rolando Rivi, Lenzini è il secondo martire ucciso dai partigiani comunisti sul finire della guerra e a guerra finita, ma è il primo sacerdote a salire agli altari.
La decisione del Papa conferma che c’è una lettura storica ben precisa che la Chiesa dà di quei fatti della nostra guerra civile: nel biennio ’44-‘45, ma anche fino al giugno ’46 (con la morte di don Umberto Pessina) in Italia si moriva in odium fidei e la decisione di procedere a questa beatificazione non farà altro che favorire la conoscenza e lo studio di molte altre figure di sacerdoti uccisi dai partigiani.
Tra questi don Tiso Galletti, per il quale è stato appena avviato il processo diocesano che per Lenzini è stato piuttosto lungo, ma che alla fine ha visto la luce.
Ma non si tratta di pochi sacerdoti. La ricerca storica in questi anni si è affinata e anche la devozione del popolo di Dio che riconosce oggi con più facilità che i preti venivano uccisi dai rossi per odio alla fede senza alcun imbarazzo rispetto ad un potere politico, quello del Pci-Pds-Ds e oggi Pd che, spalleggiando la vulgata dell’Anpi, non ha mai permesso una seria autocritica su quei fatti. Lo testimonia anche la sentenza di revisione del processo del 1993 che assolveva Germano Nicolini dall’accusa di essere il mandante dell’assassinio di don Umbeto Pessina, parroco di San Martino di Correggio. Dopo 40 anni da quei fatti, il tribunale di Reggio Emilia individuò in tre ex gappisti gli autori di quel brutale omicidio e assolse l’allora sindaco comunista di Correggio ed ex comandante Sap, morto proprio domenica scorsa a 101 anni, che per quell’accusa si era fatto dieci anni di carcere ingiusto. Ebbene: nella sentenza di revisione, i giudizi identificarono nel commando partito da Reggio di Squadre di vigilanza democratiche quell’odio politico ideologico che animava quegli anni e che è condizione più che sufficiente per proclamare l’odium fidei come è stato nel caso di Rolando e come è nel caso di Lenzini, oggi.
Il Servo di Dio Luigi Lenzini nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1945, fu svegliato bruscamente con il pretesto della amministrazione dei sacramenti ad un moribondo. Resosi subito conto che si trattava di una trappola perché la sera prima aveva fatto visita all’ammalato in parola, suonò le campane per attirare l’attenzione dei parrocchiani che abitavano nella zona ma senza risultato. I sequestratori iniziarono a sparare sul piazzale della chiesa per intimorire chiunque avesse osato intervenire a difesa del parroco. Fu trascinato mezzo vestito in aperta campagna, a circa un chilometro dalla canonica, lo obbligarono a scavarsi la fossa e, dopo averlo picchiato selvaggiamente, fu evirato, gli strapparono le unghie e lo finirono con un colpo alla testa. Sepolto a testa in giù, fu ritrovato il 28 luglio successivo, in una vigna.
Inequivocabile la spiegazione che ne dà il Vaticano: «Il martirio materiale è largamente provato. Il Servo di Dio fu seviziato e ucciso. La morte si colloca in Emilia-Romagna negli anni 1943-1945 quando, i gruppi della Resistenza, sostenuti dal Partito Comunista, cominciarono a progettare la liquidazione della Chiesa che, a causa della morale cattolica, avrebbe potuto ostacolare l’ascesa del marxismo nel dopoguerra. Le brigate comuniste, non trovando l’appoggio della gente dell’appennino modenese legata ai valori cristiani, cominciarono a colpire i sacerdoti. Don Lenzini continuò a svolgere la propria missione sacerdotale assistendo chiunque ne avesse avuto bisogno, indipendentemente dall’appartenenza politica. Il clima persecutorio verso gli esponenti della Chiesa e la ferocia usata dai carnefici per indurlo a bestemmiare e ad inneggiare a Stalin, attestano che l’odium fidei fu il motivo di questa esecrabile uccisione».
Nella ricostruzione storica si attesta che «dopo la Liberazione aveva ricevuto minacce, eppure aveva continuato a svolgere il ministero con carità e franchezza. La fama di martirio si diffuse subito e permane fino ad oggi, unita ad una certa fama di segni». Sono le stesse condizioni che si ritrovano nel “curriculum” di molti altri preti. Come nel caso di don Pessina. Anche il parroco di San Martino di Correggio ricevette minacce subito dopo la liberazione. Lo attesta il nipote Graziano Pessina che nel volume curato dal Timone riporta una testimonianza fondamentale: «Mio zio lasciò la parrocchia qualche mese prima e si rifugiò a casa nostra. Era in pericolo. Dopo qualche giorno, nonostante le insistenze di suo fratello, mio padre, decise di tornare al suo posto in parrocchia. E dopo poco tempo trovò la morte per mano del commando rosso». E’ la traccia di un martirio che andrà perseguito in futuro.
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