Oggi, 21 settembre 2021, è il 31° anniversario della morte di Rosario Livatino, che la Chiesa Cattolica ha proclamato beato il 9 maggio scorso, nella Cattedrale di Agrigento.
Il Timone ha pubblicato un libro sulla figura del giudice beato scritto da Alfredo Mantovano, Domenico Airoma e Mauro Ronco (vedi QUI, Un giudice come Dio comanda, pag. 128, € 14,00).
Per gentile concessione del Centro studi Livatino pubblichiamo a seguire il discorso che Rosario Livatino ha tenuto in occasione dei funerali di Elio Cucchiara, sostituto procuratore ad Agrigento, il 12 settembre 1983.
Appena trentenne, nel celebrare un giudice più anziano, a cui era legato dal punto di vita professionale e umano, rivela sé stesso e il modo in cui interpreta la vocazione di magistrato. Sono di attuale e profondo insegnamento i richiami all’umiltà, quale elemento indispensabile per chi indossa la toga, e alla dedizione al lavoro, che giunge fino a compenetrarsi nei drammi umani quotidiani con i quali ci si imbatte.
Elio Cucchiara ci ha lasciati.
Ci ha lasciati in silenzio, quasi con discrezione.Non ha tradito anche in questo estremo attimo lo stile che gli era proprio e che tutti conoscevamo e ammiravamo: chi non rammenta il suo passo silenzioso, il suo modo sommesso, quasi esitante, di inserirsi in un dialogo, il suo modo contenuto di porsi a confronto, di discutere un’idea e una procedura, schivo sempre, nel gesto, da ogni manifestazione che avesse il sapore dell’autorità od anche della sola autorevolezza, nonostante che di entrambe egli potesse farsi, a buon diritto, portatore.
In un’epoca nella quale tante censure si indirizzano a quella categoria cui egli apparteneva e il cittadino si interroga perplesso per sapere sotto quale nuova luce debba scorgere gli uomini che si attribuiscono il potere di giudicarlo, su dove siano stati smarriti quei tratti inconfondibili che gli consentivano di riconoscere il Magistrato, Elio Cucchiara non costituiva certo un motivo di perplessità; anzi, coloro che lo conoscevano – fossero essi avvocati, testi, o anche imputati – ritrovavano in lui quei trai netti limpidi e rasserenanti: il senso dell’imparzialità, dell’equidistanza, della correttezza più profonda, dell’impegno assoluto, del rapporto esclusivo con la norma scevro da quelle estranee influenze che così spesso oggi ne alterano l’applicazione disorientando quel cittadino.
È un giudizio, questo, sul quale chiunque non solo conviene in questo momento dell’ultimo saluto, ma conveniva senza esclusione, dubbio o piaggeria alcuna allorché ci era accanto.È quel giudizio attraverso il quale chi ha l’impari compito di dire queste parole lo aveva conosciuto prima ancora di incontrarlo realmente; sono quelle frasi con le quali mi venne descritto da avvocati del Foro di Caltanissetta, che spesso avevo sentito pronunciarsi in modo estremamente severo nei confronti di altri; sono quelle frasi colle quali lo rammentava un segretario giudiziario che lo aveva collaborato molti anni or sono in una Pretura di questo territorio dove egli aveva prestato servizio quasi agli inizi della sua carriera e che di lui forse non manteneva il ricordo dei lineamenti, ma manteneva, in modo indelebile, quello del suo scrupolo, della sua totale dedizione al dovere.
Quello stesso scrupolo, quella stessa dedizione che poi ebbi la fortuna, giorno per giorno, di constatare direttamente lavorando nella stanza accanto alla sua. E dico la fortuna perché quando si muovono i primi passi in un lavoro ignoto si volge sempre lo sguardo alla ricerca di qualcuno sul cui esempio misurarsi, ai cui gesti cercare di adeguare i propri: a me occorse la felice ventura di incontrare Elio Cucchiara; e credo davvero che difficilmente avrei potuto sperare in un modello di comportamento migliore.Era squisito in tutto: così nel porgere una requisitoria in un aspro processo d’Assise, come nel rivolgere una richiesta a un commesso.
Lo ricorderemo tutti quando veniva nelle nostre stanze, scusandosi più volte quasi timoroso di arrecare disturbo, lui, consigliere di cassazione; quando apriva una sua interpretazione, una sua idea, una sua impostazione giuridica al più aperto confronto, alla discussione incondizionata anche noi giovanissimi ultimi arrivati che appena balbettavamo in quei campi ove egli, da più di vent’anni, magistralmente, e in tanti ruoli, assolveva i propri doveri.
Un grande esempio di umiltà: quell’umiltà che, come sempre avviene per chi possiede questa rara virtù, lo poneva ben al di sopra di qualunque suo interlocutore.E come tacere del modo in cui egli viveva il proprio difficile, a tratti terribile, lavoro. Vi sono tante forme di affrontarlo: vi è quella distaccata e fredda di chi vede nelle tavole processuali solo un informe mucchio di carte che bisogna semplicemente ordinare secondo certe regole e quella di chi scorge in esse invece i drammi umani che vi si celano e che è consapevole di quanto una decisione potrà lenirli o esasperarli; v’è quella di colui che chiudendo la porta del proprio ufficio alla fine della giornata di lavoro lascia dentro di esso tutti i problemi che nel suo corso vi ha incontrato e ritrova nel privato una parentesi di sollievo e quella di colui che invece si compenetra talmente in quei problemi che li soffre fino al punto da farli propri e portarli con sé ovunque viva, macerandosi nel dubbio dell’errore ben oltre quel segno che il suo stretto dovere imporrebbe.
Inutile dire quale di queste due forme permeasse la vita di Elio Cucchiara: altri al mio posto potrebbero, con maggiore dovizia di particolari, narrare infiniti episodi nei quali lo hanno visto torturarsi moralmente fino a risentirne nel fisico per un caso giudiziario che lo occupava; torturarsi da uomo anche quando da Giudice, da magistrato, aveva ormai pronunziato la sua ultima parola.Ancor ieri, uno dei suoi familiari più cari riandava, con dolce tristezza, a questo aspetto del suo carattere, a questa sua lealtà, a quel giuramento prestato in un giorno ormai lontano che lo portava ad essere dimentico di sé stesso e unicamente teso a individuare la soluzione più giusta per qualunque impegno lo attendesse, fosse quello di richiedere la morte civile di un uomo o il decidere la sorte di un bene in sequestro.
E in tutto questo mai una punta di orgoglio, mai un sintomo della tentazione di abusare del potere – invero grande – che la legge affida alle nostre mani; tentazione cui è facile, tanto facile, indulgere (e le cronache sono generose nel narrarci di quotidiani cedimenti).Mi sia concesso di invitare chiunque a cercare nella propria memoria una volta, una sola volta nella quale Elio Cucchiara abbia fatto un uso men che corretto dei suoi poteri. Tormentato, sofferto, sì; ma mai men che corretto.
E desidero qui riportare le parole colle quali un’avvocato del nostro Foro, a lui vicino per tanti versi, ne parlò un giorno, forte di una sua conoscenza ben più ampia e profonda di quanto io possa vantare; disse in quell’occasione che per lui i magistrati possono dividersi in due categorie: quelli che argomentano in questo modo: “La Legge non dice che io non posso farlo e allora lo faccio”, e quelli che argomentano in quest’altro modo: “La Legge non dice che io lo posso fare e quindi non lo faccio”: e concluse esprimendo il proprio avviso secondo il quale l’uomo che qui onoriamo incarnava l’idea che quella seconda categoria ispira.E v’è differenza fra queste due categorie, fra questi due modi di informare il proprio dovere?
Sì, v’è quella stessa differenza – sottile e abissale a un tempo – che corre tra l’essere semplicemente operatori del diritto e l’essere Operatori di Giustizia.
Ed Elio Cucchiara è stato, per tutti e con tutti, un Operatore di Giustizia.
Non voglio aggiungere altro. Desidero solo ricordare ancora una sua dote, della quale ho già parlato: l’umiltà.
In questi nostri giorni, nei quali la prosopopea e l’arroganza sembrano assurte a lodevoli regole di vita, la sua lezione di umiltà è – io credo – fra le tante belle cose che ci ha lasciate, la più bella.
Ed è per essa, più che per ogni altra, che io gli dico, che noi tutti gli diciamo, grazie Elio.
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