Neanche il tempo di capire bene di che diamine di malattia si tratti, che già il vaiolo delle scimmie se ne va in pensione. Lo hanno stabilito d’imperio trenta di scienziati da tutto il mondo, i quali, scrivendo all’Oms, hanno fatto presente ciò che a tutto il pianeta – fuorché a loro, ça va sans dire – era finora sfuggito, e cioè che «vaiolo delle scimmie» o monkeypox è una espressione razzista perché rafforza lo stigma nei confronti degli africani proprio perché contiene la parola «scimmie». Non ci avete capito nulla? Tranquilli, è del tutto normale.
Sono infatti anni che il razzismo viene visto quasi ovunque. Nell’estate 2011 Nivea ha dovuto ritirare una pubblicità apparsa sulla rivista americana «Esquire»; nel maggio 2020 a fare marcia indietro era stata Volkswagen; nello stesso anno Apu, il popolare commerciante indiano dei Simpson, ha perso il suo doppiatore storico – l’attore comico Hank Azaria – per via del presunto razzismo di cui il personaggio sarebbe in qualche modo emblema. Lo scorso anno è stata accusata di suprematismo bianco perfino la nazionale di calcio italiana che poi, è vero, ha vinto gli Europei ma si portava addosso una colpa gravissima: non aveva giocatori di colore.
Il fatto che colpisce è che non c’è modo di accontentare i militanti antirazzisti: neppure offrendogli una cattedra universitaria. Lo prova la vicenda che, tempo fa, ha avuto per protagonista il sociologo Kehinde Andrews il quale se l’è presa con la Birmingham City University, la stessa che non solo l’ha assunto ma ha istituito per lui la prima cattedra di Black Studies nella storia del Regno Unito. Il motivo? «Vengo trattato come un nero arrogante che dovrebbe essere sempre grato per tutto senza mai protestare», ha lamentato Andrews. Al quale meglio dare assolutamente ragione, se non si vuol essere, ovviamente, ancora tacciati di razzismo.
Se questo è l’andazzo generale, si può quindi ben comprendere come non vi sia nulla di strano nello scorgere un che di suprematista pure nel vaiolo delle scimmie. Fa infatti tutto parte dell’ubriacatura woke in cui siamo immersi e che, non avendo alcunché davvero interessante da dire, si diletta con l’etichettare e, quindi, il demolire: che si tratti di statue nelle piazze o delle reputazioni di singoli non fa differenza. L’importante è epurare, liberare il mondo dalle tossine delle opinioni e perfino dei libri non sufficientemente allineati al pensiero dominante; inclusi quelli dei classici: da Omero a Shakespeare non ce n’è uno che, passato sotto le lenti del politicamente corretto, oggi si salvi.
La grande beffa è che, se tutto diventa di colpo razzismo, poi di fatto nulla lo è più davvero. Ingigantendo oltremisura un fenomeno odioso e reale, specialmente negli Usa, come quello della discriminazione su matrice etnica, si ottiene infatti l’effetto contrario, finendo con il perdere di vista quelli che davvero sotto atti e comportamenti razzisti. Strano che voi, cervelloni antirazzisti che popolate e controllate campus universitari, redazioni e studi televisivi non vi siate accorti di un concetto tanto elementare. Proveremo allora a rispiegarvelo, magari un’altra volta. Intanto – vaiolo o non vaiolo delle scimmie – una richiesta: dateci tregua.
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