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Quel che resta dei cristiani irakeni dopo la pulizia etnico-religiosa del califfato
NEWS 8 Marzo 2017    

Quel che resta dei cristiani irakeni dopo la pulizia etnico-religiosa del califfato

di Giordano Stabile

 

All’ingresso della canonica della chiesa di Mar Kriakhos a Batnaya c’è la statua di una Madonna decapitata. I combattenti dell’Isis che ci hanno bivaccato per due anni e mezzo l’hanno lasciata lì, in mezzo alla porta sfondata, forse come monito. Dentro ci sono scritte in arabo sui precetti del Corano e altre in tedesco, di qualche foreign fighter europeo: «Merdosi schiavi della croce, vi uccideremo tutti. Questa è terra dell’Islam, non c’è posto per voi». I cinquemila abitanti, cristiani caldei, sono fuggiti. Batnaya è una città fantasma, neanche un cane randagio. Padre Salar osserva le scritte, scuote la testa: «Prima qui erano tutti cristiani, non so quando torneranno. E quanti. Molte famiglie sono fuggite all’estero. Bisogna ricostruire da zero». 

Batnaya, fra le città cristiane della piana di Ninive, è quella che ha subito le maggiori distruzioni: il 95 per cento delle case è raso al suolo o gravemente danneggiato. E' qui che la pulizia etnica dei jihadisti ai danni dei cristiani appare in tutta la sua ferocia. Con la macchina si avanza a fatica fra cumuli di macerie, carcasse di auto-kamikaze, mobilia abbandonata per strada. La chiesa è rimasta in piedi solo perché risparmiata dai bombardamenti. Quello che non hanno devastato i combattimenti è stato saccheggiato e bruciato dagli islamisti prima di andar via. La linea del fronte correva qui, a 20 chilometri a Nord di Mosul, e solo alla fine di gennaio è stata messa in sicurezza. In città girano soltanto i Peshmerga curdi. Per due anni e mezzo sono cadute bombe, razzi ma ora il fronte caldo è a Sud, sul lato opposto della capitale dell’Isis in Iraq. L’esercito avanza dal 19 febbraio, ieri ha preso un altro ponte e sta per lanciare l’assalto al quartiere di palazzi governativi, una piazzaforte dell’Isis. 

La pulizia etnica  

«Rabbi». Il parrocchiano che accompagna padre Salar gli si rivolge con l’appellativo in lingua aramaica, e non quello arabo di «abuna». Poi indica la parete dietro l’altare distrutto, crivellata di colpi. «I terroristi la usavano per il tiro a segno, per esercitarsi». La piana di Ninive era l’unica zona dell’Iraq a maggioranza cristiana, circa 150 mila persone. Gli abitanti di quest’area, fra Batnaya e Al-Qosh, parlano ancora l’aramaico, la lingua dei tempi di Gesù perché è qui che il cristianesimo fiorì dove si fermarono gli ebrei deportati da Nabocodonosor dopo la distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme nel 586 A.C. I bambini a scuola però studiano in arabo, e ora alcuni anche in curdo. La zona a Nord e Est di Mosul è stata difesa dai Peshmerga dal 2014, a caro prezzo, oltre 1800 caduti. E quello che era una volta parte della provincia di Ninive è ora annesso al Kurdistan iracheno, una regione autonoma che marcia a passo spedito verso l’indipendenza. Per i cristiani il Kurdistan è stato l’unico porto sicuro dopo la presa di Mosul da parte di Isis. In realtà fin dal 2003, quando la deposizione di Saddam scatenò la guerra settaria di sunniti contro sciiti, e tutti contro i cristiani. 

«Quindici anni fa i cristiani in Iraq erano un milione e mezzo. Oggi sono 300 mila, e i due terzi vivono nel Kurdistan – conferma il vescovo caldeo di Erbil, Bashar Warda -. L’Isis è stato il colpo finale, ma l’esodo è cominciato prima. Le famiglie prima fuggono in Giordania, Libano, Turchia. Poi cercano una nuova vita in Occidente, soprattutto in Australia, che si è mostrata la più accogliente». Certo più accogliente dell’America di Trump. Il primo «bando», che comprendeva anche l’Iraq, ha costretto il vescovo a rinviare il viaggio a New Yorkin febbraio. Ora il bando è stato «corretto» e i cittadini iracheni non sono più nella lista, ma l’amarezza resta. Senza l’aiuto di Usa ed Europa i cristiani d’Oriente scompariranno, e quello che è successo in Iraq descrive una pulizia etnica sistematica. 

A Baghdad, conferma il vescovo, «è sempre più difficile vivere». Lui stesso si è dovuto trasferire a Erbil, per seguire la maggioranza del gregge, e per ragioni di sicurezza. I cristiani sono sotto tiro. «Minacce, lettere a casa con dentro proiettili, negozi distrutti». E soprattutto sequestri. «La famiglia paga, 10 mila dollari, e poi se ne va all’estero». E ora alla violenza degli islamisti sunniti si aggiunge l’ostilità crescente delle milizie sciite. In Kurdistan invece i cristiani aumentano. Dalla piana di Ninive ne sono arrivati 125 mila. La Chiesa caldea è autonoma, con un suo patriarca, Raphael Sako, ma è unita a quella di Roma e gode di un forte sostegno internazionale. La diocesi di Erbil ha procurato 1400 case per ospitare i profughi, e spende oltre un milione di dollari al mese per gli affitti, 700 mila in aiuti alimentari. «Volevamo creare piccole comunità – spiega il vescovo -, per evitare la dispersione e la fuga. E abbiamo costruito 14 nuove chiese». 

Il ritorno  

Uno sforzo enorme per evitare l’annientamento. Erbil è a un’ora di macchina dalle cittadine della piana di Ninive e la speranza è di riportare a casa almeno una parte delle famiglie. «Conosco la mia gente – spiega padre Salar -. vogliono prima di tutto la dignità. Non accetteranno di accamparsi. Bisogna portare acqua, elettricità, ricostruire le case. Altrimenti non torneranno». Dal 2003 in poi, l’Isis è stata solo l’ultima incarnazione del male. «Non abbiamo più avuto pace, sotto Saddam eravamo poveri, i servizi scarseggiavano, ma non eravamo costretti a scappare, la vita della comunità era intensa». Dieci chilometri a Nord di Batnaya, a Tellesqef, gli sforzi però cominciano a pagare. Duecento famiglie sono tornate, un piccolo ambulatorio è stato aperto in una villetta di un concittadino abbiente, fuggito anche lui in Australia. 

(Nella chiesa Mar Kriakhos una Madonna è stata decapitata)  

C’era poca scelta davanti a Isis. «Convertirsi, scappare, o morire». Sulla stessa strada c’è la casetta a due piani di Abu Nataq. Davanti alla porta un frigo ancora imballato, comprato «con l’aiuto della chiesa». Abu Nataq, due figli maschi e due femmine, è stato l’ultimo a fuggire, a Dahok, 70 km a Nord-Ovest. «Erano le 22 del 6 agosto 2014», ricorda, seduto nel salotto riarredato, nella sua jalabya grigia, dietro un quadretto di San Giuseppe. «E sono stato il primo a tornare. Ringrazio il Signore: nessuno di noi è stato ucciso o ferito. Qua vicino c’era una famiglia yazida, otto persone, li hanno ammazzati tutti». Abu Nataq ha 65 anni e deve ricominciare da capo ma non lascerà l’Iraq, perché «la terra dove sono sepolti i tuoi cari vale più di ogni cosa». L’Isis si è accanito anche contro il cimitero, ma le tombe dei famigliari di Abu Nataq ci sono ancora. Oggi ci poserà sopra un mazzo di gardenie bianche, il simbolo della rinascita di primavera.