È in atto, ormai, la sua “canonizzazione” e da diversi giorni. E non si tratta di qualche religioso distintosi per le virtù eroiche, ma niente meno che di Kamala Harris, per la quale si è attivata la grancassa mediatica, non solo d’Oltralpe ma anche nazionale: «Già in vantaggio di due punti», riportava ieri con toni trionfanti il Corriere della Sera in prima pagina. Era già balzata agli onori della cronaca per essere diventata la prima vicepresidente “addirittura” donna, “addirittura” asiatica e “addirittura” afroamericana (per chi non lo sapesse, nuove “righe importanti” da aggiungere sul proprio curriculum, nel caso dovesse servire).
Eppure qualche scheletrino nell’armadio ce l’ha anche Kamala Harris: e neppure così trascurabile. Ma prima di rovistare nel suo recente passato, partiamo dall’ultimo attacco sferrato da Kamala contro Trump, a Milwaukee, durante il suo primo comizio elettorale in cui ha paragonato il tycoon ai truffatori e predatori che in passato, quando era procuratrice, ha più volte perseguito. E parliamone, della sua attività di procuratrice, sbandierata come motivo di vanto e come arma contro Trump perché c’è una “vecchia storia” che riguarda questo suo importante incarico e che attualmente si tiene ben celata, ma che, per amore di verità andrebbe veramente ricordata, per avere una chiara idea della sua “statura politica”.
Ci riferiamo al fattaccio accaduto qualche anno fa, quando l’associazione Center for Medical Progress, lanciò un’indagine su Planned Parenthood che mise in evidenza lo scandalo grande, ad opera dell’organizzazione abortista, del commercio di feti umani, venduti anche a pezzi, a laboratori compiacenti. Tutto questo venne documentato grazie a video girati di nascosto tra il 2014 e il 2015 dagli attivisti pro life David Daleiden e Sandra Merritt, video nei quali si vedono manager della Planned Parenthood discutere di vendita di tessuti e organi fetali e di altre pratiche disumane e illegali come gli aborti a nascita parziale.
Ma indovinate un po’ su chi Kamala Harris cominciò ad indagare? Su Planned Parenthood? No! Sul Center for Medical Progress e in particolare proprio sul giornalista David Daleiden, la cui casa venne perquisita, perché – come annunciò la Harris – doveva accertarsi personalmente che «non avesse infranto qualche legge». Criterio investigativo che generò non poche perplessità, al punto da scatenare un’ondata di indignazione generale, in particolare da parte dei gruppi pro life, tra cui l’associazione Susan B. Anthony che chiese a gran voce le dimissioni della Harris come procuratore generale della California accusandola di «conflitto di interessi e abuso di potere».
«Abuso di potere» evidentemente perché, come sottolineò all’epoca dei fatti proprio Daledein, l’azione mossa contro di lui aveva più che altro il sapore di un «gesto intimidatorio». «Conflitto di interessi», invece, nei confronti di Planned Parenthood, a causa di una serie di email che documentano come Kamala Harris e il colosso abortista abbiano in sostanza scritto delle leggi insieme, per imbavagliare il movimento pro-life. Sta di fatto che la storia, alla fine, si risolse in un nulla di fatto, per il rifiuto della procuratrice di indagare sull’organizzazione abortista, mentre diversi dei video girati da Daledein, sparirono misteriosamente da Youtube. Una vecchia storia, sì, ma che la dice lunga sul candidata democratica in corsa alla Casa Bianca… (Foto: Facebook/Imagoeconomica)
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