Mentre la legge sull’eutanasia legale riprende il suo iter dalla Camera di Montecitorio, e papa Francesco ha ricordato ieri che “va sempre privilegiato il diritto alla cura e alla cura per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani e i malati, non siano mai scartati”, pubblichiamo stralci di un’intervento del cardinale Carlo Caffarra (1938-2017) al Convegno del SAV Ferrara, Sala Estense 4 febbraio 2001.
«[…] Mi limito a parlare esclusivamente di eutanasia intesa nel senso preciso di “un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore” [lett. Enc. Evangelium vitae 65,1].
Nei confronti di questa condotta umana mi pongo le seguenti due domande: perché l’eutanasia è andata sempre più legittimandosi e perfino nobilitandosi nella coscienza morale degli uomini del nostro occidente e nell’ethos delle comunità civili occidentali? Che cosa pensare e fare di fronte a questa legittimazione?
Facendo una rapida rassegna degli argomenti portati a favore dell’eutanasia, possiamo agevolmente ridurli ad uno solo: esistono condizioni nelle quali continuare a vivere non è più un bene e quindi non ha più senso: ma nessuno può essere obbligato a vivere una vita in-sensata poiché è inumana; dunque non essendoci più il dovere di vivere, ho il diritto di morire [uccidendomi da solo o chiedendo ad altri di farlo, è secondario].
Quest’argomentazione dona molta materia di riflessione. Essa dimostra che in occidente si è demolita la verità cristiana della morte. La mia posizione cioè è la seguente […]: la legittimazione e nobilitazione dell’eutanasia è stata possibile perché è andato progressivamente de-costruendosi l’idea cristiana di morte. Questa demolizione o de-costruzione è sostanzialmente consistita nella spersonalizzazione della morte.
La radice di questa spersonalizzazione è da situarsi, mi sembra, nella progressiva negazione della dimensione storica della morte, la cui affermazione costituisce invece il punto di partenza della visione cristiana della morte. La morte è divenuta sempre più un evento naturale di fronte alla quale, come di fronte ad ogni evento naturale, o si impreca nella propria impotenza o si cerca di assoggettarla alla propria decisione libera.
[…] Esistono tante pene e miserie umane. Molti di noi ne hanno conosciute tante, anche in proprio, o da vicino. Si parla spesso perfino di vite sprecate. Ma in realtà quale è la vera “qualità” della vita umana? Che cosa significa una esistenza umana in quanto umana? È la capacità dell’uomo di diventare, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come “io”, come uno che sta davanti a Dio. E questa decisione non dipende da altro che dall’io stesso. Quando si perde questa consapevolezza, la consapevolezza di se stessi posti dalle proprie elezioni davanti a Dio, l’uomo si perde nel fluire del tempo ed il criterio di valorizzazione di se stesso muta completamente: che utilità ha il mio rimanere in vita? Quale felicità posso ancora prevedere? O posso solo prevedere sofferenza? in una parola: la vita non vale davanti a Dio, ma in se stessa. Il che equivale a dire: il suo valore è un valore che può cessare, non eterno.
[…] La vicenda dell’eutanasia dimostra inequivocabilmente che la misura del valore della vita presente dipende dall’affermazione/negazione del destino eterno di ogni persona umana. In ultima analisi: dall’essere l’uomo un “io” chiamato a pronunciarsi davanti a Dio. Kierkegaard aveva acutamente osservato che la coscienza della propria grandezza dipende dal “davanti a chi/che cosa” l’affermo. È davanti a Dio che l’uomo è chiamato a prendere posizione. Di qui deriva che la costruzione di una “cultura della vita” trova la sua fondazione ultima nell’aiutare ogni uomo a prendere coscienza di questa sua vocazione. […] È in sostanza il compito essenziale della Chiesa: annunciare il Vangelo della vita eterna.
[…] Il secondo compito legato strettamente al primo è di far maturare un forte senso critico [cfr. Rom 12,1-4] nei confronti di una cultura della morte e della negazione della libertà. Si connette a questo l’impegno educativo delle giovani generazioni per farle uscire da quel “deserto di senso” nel quale attribuire un valore eterno alla vita di ciascuno diventa impensabile: che valore avrebbe infatti una vita umana che comincia per caso, non ha nessuna meta finale ed è il frutto di casuali coincidenze? Fin che è piacevole o fin che ha una prudente previsione di un futuro temporale migliore, è vivibile; altrimenti non ha più alcun valore.
Ma venendo al problema specifico nostro, non si deve ami dimenticare che la vera soluzione al problema dell’eutanasia è un altro. “La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno”. [Lett. Enc. Evangelium vitae 67,1]. È questa una prospettiva che deve ispirare ogni politica sanitaria».
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