Sabato è il giorno dell’approdo a Roma della grande manifestazione #restiamoliberi contro il Ddl Zan sull’omotransfobia. Ieri sul Foglio intanto è comparso un appello di diversi intellettuali e esponenti della società civile che hanno spiegato come il disegno di legge che mira a reprimere ogni tipo di opinione non politicamente corretta su omosessualità e omosessualismo sia pericoloso tanto da prefigurare uno scenario da stato totalitario che mira a reprimere la libertà di opinione.
Tra i firmatari dell’appello, si va dal giudice Alfredo Mantovano all’ex presidente del Senato Marcello Pera, dall’intellettuale cattolico Francesco Agnoli a studiosi come Dario Fertilio, Assuntina Morresi e Maurizio Sacconi, c’è anche Eugenio Capozzi. L’autore del fortunato “Politicamente corretto, storia di un’ideologia”, professore di storia all’università di Napoli spiega in questa intervista al Timone i perché di questo appello.
Professore, perché scrivete che il ddl Zan è totalitario?
«Le ideologie totalitarie sono quelle che vogliono cambiare la stessa natura umana, produrre l’”uomo nuovo”. Il relativismo biopolitico radicale concepisce l’umanità come un’entità “fluida”, completamente dipendente dalla rappresentazione e autodeterminazione soggettiva, e considera “nemico di classe” da cancellare e zittire chiunque si appelli alla natura e alla tradizione per definirla. I regimi totalitari non si accontentano dell’obbedienza dei sudditi: pretendono da essi l’omaggio continuo alle loro parole d’ordine, la mobilitazione, la professione di fede pubblica. Per la dottrina “gender” chiunque non manifesti adesione ai dettami dell’identità “fluida” sta commettendo una “violenza”, perché “offende” i diritti delle “tribù” da essa riconosciute come meritevoli di risarcimento per le discriminazioni subìte, e dunque deve essere fermato con ogni mezzo, non è ammesso nemmeno a far parte della società civile».
Nell’appello ricordate che neppure durante gli anni di piombo venivano punite le opinioni. Quindi gli anni di piombo veri sono questi che viviamo?
«L’”emergenza” degli anni dell’assalto brigatista fu un periodo di forte attacco alla libertà di opinione e allo habeas corpus, ma il “movimento” della sinistra extraparlamentare godeva di forti protezioni nei salotti delle élite intellettuali, grazie alle quali conservò sempre un certo grado di legittimazione. E poi esisteva una frangia di cultura libertaria di ceppo liberaldemocratico, come i radicali, o riformista, come il Psi craxiano, che opponeva una efficace resistenza alle spinte più autoritarie. Infine, appunto, le spinte repressive erano autoritarie, non totalitarie. Erano motivate da una richiesta di “legge e ordine”, anche nella sinistra. Oggi invece abbiamo una ideologia relativista radicale egemone nelle élite progressiste iper-borghesi occidentali, nel sistema dei grandi media digitali, nelle organizzazioni internazionali, che vuole imporre i suoi precetti capillarmente nelle società di massa attraverso la propaganda politically correct, e non ammette dissenso, anzi pretende continuamente esplicita sottomissione».
Nel testo fate spesso appello alle libertà violate. Che cosa significa oggi essere liberi?
«La libertà nella storia della civiltà occidentale si è definita, a partire dalla radice ebraico-cristiana, come responsabilità propria di ogni individuo dotato di ragione e legge morale, che non può essere confiscata da poteri costrittivi esterni, pena la degradazione della dignità originaria dell’essere umano. Il costituzionalismo e il liberalismo hanno tradotto questa sfera di intangibilità in norme ed equilibri istituzionali finalizzati a limitare il potere: quello dello Stato, ma anche quello di attori extra-statuali come i potentati economici o quelli mediatici, e persino quello della mentalità egemone (pensiamo alla concezione del liberalismo come eccentricità in Stuart Mill). Se non si consente a individui e cellule sociali di professare visioni del mondo opposte rispetto alla vulgata dominante, di essere “lievito”, di vivere fuori da schemi imposti dal mainstream, non esiste nemmeno la libertà politica delle democrazie».
Fate appello ai parlamentari e sabato una imponente manifestazione chiederà al Parlamento di fermarsi. Ogni tanto qualche italiano si alza in piedi.
«Rispetto alla prepotenza intollerante dell’ideologia gender esiste da molti anni un movimento diffuso di resistenza, che si è sostanziato in manifestazioni enormi come i tre Family Day tra il 2007 e il 2015, e in una rete di associazioni italiane e internazionali. Questo movimento è emarginato dal mainstream mediatico, e ultimamente ha dovuto subire una certa freddezza persino nella gerarchia della Chiesa cattolica, ma è una realtà consolidata. Non credo che possa essere scoraggiato dall’apparente strapotere degli avversari, perché è animato da motivazioni molto profonde. Quando finalmente nel dibattito pubblico occidentale, e italiano, diventerà evidente a tutti il fatto che la vera divisione politica del nostro tempo è quella tra l’impulso suicida delle società industrializzate relativiste e lo spirito vitale che richiede un nuovo inizio a partire da natalità, famiglia, sussidiarietà, i movimenti pro life culturalmente avranno le argomentazioni più forti».
Tra voi firmatari dell’appello ci sono persone di espressione cattolica. È un piccolo resto o una Resistenza in vista del diluvio?
«Credo che nella battaglia contro il totalitarismo politically correct la cultura cattolica e quella liberale laica convergano naturalmente nel rifiuto di poteri invadenti che umiliano la dignità della natura umana e la coscienza dell’individuo, che non danno “a Dio ciò che è di Dio”, ma vogliono ridurre tutta la vita umana alla schiavitù a Cesare. Questa convergenza mi pare esemplarmente rappresentata dal primo firmatario di questo appello, Marcello Pera. C’è poi una parte della cultura cattolica che è slittata da una equivoca interpretazione del cristianesimo come veicolo di promozione sociale alla connivenza con il relativismo radicale. Ma i suoi esponenti si accorgeranno prima o poi, mi auguro, di essere finiti in un vicolo cieco, in fondo al quale c’è la schiavitù al Leviatano ateo».
Ci spieghi l’espressione l’intolleranza degli intolleranti dei tolleranti…
«Nel progressismo contemporaneo l’idea di tolleranza ha subìto uno slittamento semantico fatale: da garanzia di una ricerca dialogica onesta della verità è diventata sinonimo di relativismo, dogma della soggettività totale della verità. Da qui un ulteriore slittamento: se la verità è sempre soggettiva e relativa, chi lo nega, chi professa fede nella possibilità di raggiungere una verità condivisa, è intollerante, e quindi non può essere tollerato. Il relativismo diventa obbligatorio, assolutista. Quindi la verità viene decisa volta a volta dalla “narrazione” dominante nel sistema dei mainstream media, che è oggi l’equivalente di quel che era per le ideologie totalitarie novecentesche la “linea del partito”».
Ha qualche esempio sotto mano?
«Ce ne sarebbero infiniti. Quello che mi viene per primo alla mente, vista la attualità della vicenda, è la vera e propria gogna mediatica subìta dalla giudice Barrett negli Stati Uniti ad opera dei media e politici progressisti per il fatto di essere cattolica e pro life. Se sei musulmana puoi anche rivendicare la sottomissione delle donne ma avrai in quegli ambienti un salvacondotto in quanto appartieni a una cultura “altra”, dipinta come “vittima” dell’”imperialismo” occidentale e dunque protetta per definizione. Se credi in Cristo, professi una morale cristiana, ti opponi all’aborto e all’eutanasia il progressista tipo si sente autorizzato ad infangarti e insultati in ogni maniera, perché non ti riconosce nemmeno la dignità umana, in quanto non ti pieghi ai suoi dogmi, alla sua “narrazione” totalitaria».
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