Eppure le cose non sono così lineari. Un recente sondaggio del prestigioso “Pew Research Center”, in vista delle elezioni di medio termine del prossimo 4 novembre, ha rilevato che la popolazione americana desidera una maggior influenza della religione nella politica. Il 72% ritiene infatti che la religione stia perdendo influenza nella vita sociale e politica e la maggioranza di essi la vede come una cosa negativa, addirittura il 49% vorrebbe che le chiese esprimessero (di più) le loro opinioni sugli argomenti politici. Circa 6 punti percentuali in più rispetto alle elezioni di medio termine del 2010. Il 41% pensa che le espressioni di fede dei leader politici siano “troppo poche” e addirittura un 32% vorrebbe che le chiesa partecipassero in prima linea al sostegno dei candidati a cariche politiche.
A questo proposito, la Corte Suprema americana ha decretato nel maggio scorso che iniziare un’assemblea in municipio con una preghiera non è affatto incostituzionale, è un’attività civica che non intende discriminare i non credenti (la stessa Corte introduce i lavori in questo modo). Tornando al sondaggio: i cosiddetti “nones”, cioè i “non religiosamente affiliati”, sono invece molto più propensi ad opporsi alla mescolanza di religione e politica. È interessante notare però che il 30% dei “nones” sono tra coloro che considerano la perdita di influenza di religione un fattore negativo e sono d’accordo che il mondo politico dovrebbe includere punti di vista influenzati dalla convinzioni religiose. L’analisi ha rilevato anche un declino di 5 punti percentuale tra i favorevoli al matrimonio omosessuale (49% a favore e 41% contrari), ancora presto per sapere se sia l’inizio di un’inversione di tendenza. In ogni caso, il 50% degli americani considera l’omosessualità un peccato (il 45% un anno fa) e quasi la metà degli adulti statunitensi (49%) pensa che aziende come catering e fioristi dovrebbero essere autorizzate a rifiutare le coppie dello stesso sesso come clienti se ciò contraddice la loro posizione religiosa o etica.
Infine, Byron Johnson, professore emerito di Scienze Sociali presso la Baylor University, dove è anche co-direttore del Baylor University’s Institute for Studies of Religion, si è opposto ai “racconti mediatici distorti” circa l’avanzare della secolarizzazione. Secondo i suoi dati la generazione Millennials (o nuova generazione, i nati tra gli anni ’80 e 2000), come la stragrande maggioranza degli americani, si considera religiosa e i tassi di frequenza in chiesa recuperano una volta essi si sposano e hanno bambini. Inoltre, molti di coloro che non frequentano regolarmente la chiesa sono soprattutto gli anziani, i quali però riportano costantemente alti livelli di impegno religioso. Infine, il numero di atei in America è rimasto stabile al 4% dal 1944.
Un punto di vista inedito sugli Stati Uniti, per qualcuno potrà essere positivo, per altri no. Personalmente non ci ha entusiasmato più di tanto. Certo, è interessante questo bisogno dell’autorità di un riferimento morale nelle scelte del Paese ed è importante che la Chiesa abbia la libertà di esprimersi nella società civile e riesca ad essere ascoltata, così come è positivo il bisogno che sia rispettata la libertà religiosa delle persone. Ma la secolarizzazione non ci ha mai spaventato, anzi rende questo periodo storico molto affascinante per noi credenti e poco ci interessa che la religione venga usata come bagaglio culturale di un Paese (come se fosse la bandiera o l’inno nazionale), per cui i personaggi pubblici debbano sentirsi in dovere di “dimostrare” la loro appartenenza religiosa. O la fede la si vive intensamente e la si usa come parametro per giudicare la realtà, oppure non serve a nulla. Tanto meno sventolarla come garanzia di “buon costume”.