venerdì 20 settembre 2024
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Perduti e ritrovati: i nostri ragazzi traditi e la speranza che dobbiamo loro
NEWS 24 Agosto 2024    di Paola Belletti

Perduti e ritrovati: i nostri ragazzi traditi e la speranza che dobbiamo loro

In collaborazione con CdO Opere Sociali, il Meeting per l’amicizia fra i popoli, quello che per tutti è semplicemente “Il Meeting di Rimini”, ha realizzato un incontro sul tema della bellezza e della fragilità dei nostri giovani. Sul nostro sguardo di adulti, sui pesi che abbiamo messo loro sulle spalle, gli ideali che abbiamo nascosto. Il rischio è quello di deformare la nota metafora, dunque: una generazione di giganti imbolsiti che si schianta sulle loro spalle minute, e loro che non hanno più schiene robuste sulle quali salire per guardare lontano. Ma per grazia esiste un intero popolo che li vede, li ama, se ne prende cura e li vuole restituire a loro stessi e al loro presente. Al diavolo il futuro, dunque, almeno quello della frase “i giovani sono il nostro futuro”. I giovani sono il loro di futuro, e il loro presente. Che già di passato greve come piombo gliene abbiamo consegnato e di presente vuoto come la pelle abbandonata di un serpente gliene abbiamo gettato davanti.

Procedure, solo quelle: alert, descrizioni, protocolli, modi in cui non farsi male e non dare troppo fastidio, ginnastiche erotiche da praticare il prima possibile, ma senza passarsi infezioni e altre cose mollicce e poco igieniche, come per esempio sembra essere una gravidanza. E loro, che sono dei signori, ci rispondono con la sincerità di un dolore sotto gli occhi – e dentro al petto – che nessuna skin care riesce a cancellare. “Il grande tradimento: ragazzi perduti e ritrovati” è il titolo dell’incontro che si è svolto venerdì 23 agosto dalle ore 12 ed è stato una boccata di aria fresca; non una brezza leggera che concili il sonno post prandiale, piuttosto una ventata frizzante che dia la sveglia perché la cosa più sorprendente, semplice e vera della grande questione educativa è che in ballo c’è il cuore di tutti, giovani e adulti. E il solo adulto che possa davvero educare è un adulto impegnato con la fame di senso e di infinito che ci costituisce e che ci umilia, liberandoci di inutili gravami, perché il dramma dell’esistenza è lo stesso a 7 o a 100 anni.

A moderare l’incontro è Stefano Gheno, presidente CdO Opere Sociali; ad intervenire con contributi sapidi e pieni di storie vive sono stati Francesco Belletti, direttore del Centro italiano studi famiglia, Silvio Cattarina, presidente della Cooperativa sociale L’Imprevisto, don Elio Cesari, presidente del Centro nazionale opere salesiane, Dario Odifreddi, presidente del Consorzio scuola e lavoro e Maria Teresa Bellucci, Vice ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. Con la tipica schiettezza un po’ ruvida dei ciellini, Gheno lo dice subito: noi abbiamo tradito i giovani e i vecchi si sentono a loro volta traditi da giovani che non sembrano all’altezza delle loro aspettative, lo dice senza polemica e riportando un fenomeno di cui tutti abbiamo una certa percezione, con la disponibilità ad andare però al fondo della questione, senza cedere alla scorciatoia del capro espiatorio.

Non è un caso che oggi siamo così tanti, commenta ancora, e che questo sia uno dei primi incontri andati esauriti dell’edizione di quest’anno dice di quanto il popolo del meeting ritenga centrale questo tema. Gli interlocutori autorevoli pronti a portare il loro contributo sono tutti psicologi, escluso Belletti che è un sociologo; e tutti si considerano amici. Un dettaglio che dice tanto della trama che anche nel tessuto sociale serve a dare ai giovani la possibilità di ordire la propria vita, di ricamarla, persino di ingarbugliarla in nodi che, alla fine, non sono mai davvero impossibili da sciogliere. Dice di adulti impegnati loro per primi ad urlare la propria sete di infinito, a cercare il volto che tutta la realtà suggerisce e annuncia. La parola passa subito a Francesco Belletti che risponde presentando con numeri significativi i tratti che caratterizzano la condizione dei giovani. Ringrazia dell’occasione perché ritiene molto importante il confronto tra il punto di vista sociologico di chi lavora sul campo e quello di chi deve occuparsi di progetti pubblici.

I numeri che richiama servono a rispondere alla domanda su quanto sono in difficoltà le nuove generazioni, quanto hanno sofferto e anche quanto le manifestazioni di disagio accomunano giovani e adulti? Hikikomori, un fenomeno già risuonato in questi padiglioni al meeting dello scorso anno: in Italia  alivello di scuole superiori l’1,7 per cento delle persone è in ritiro sociale. Persone che non escono dalla propria stanza neanche per andare a mangiare e magari hanno come unica finestra sul mondo lo schermo del computer. Sono 44000 persone, sono due su cento, una persona ogni due classi che hanno paura del mondo e non escono più di casa; mentre un altro 2,6 per cento sono a grave rischio di diventarlo. Un grande catalizzatore di questo fenomeno è stata la pandemia; oltre al long covid medico sanitario dobbiamo registrare un impatto fortissimo di sofferenza relazionale e psicologica, un’eredità di ferite e sofferenze cha magari non vediamo e che le giovani generazioni si stanno portando dietro in misura assai maggiore rispetto agli adulti.

Altri numeri: il 49, 4 per centro di giovani tra i 18 e i 25 anni ha sofferto di ansia o depressione dopo la pandemia: uno su due! Ansia e depressione sono sofferenze reali, toste, che non vanno via da sole; bisogna che qualcuno le guardi e se ne faccia carico. Un altro dato, riferito all’anno successivo, che non accusa nessuno perché – ricorda Belletti- sappiamo bene come sia complicato essere genitori: il 71 per cento degli studenti afferma di provare disagio, ma solo il 31 per cento dei genitori lo rileva. Un’altra cosa che emerge dai dati statistici è che il 39 per cento dei genitori sostiene che la colpa sia della scuola e lil 37 per cento degli insegnanti imputa la responsabilità del disagio alla famiglia; si tratta di fatto di una grande ferita della nostra alleanza educativa dove, nel rimpallo delle responsabilità, l’unica vittima è il ragazzo.

Nel 2022 ben un undicenne su cinque dichiarava di essere bullizzato, dato simile anche per le ragazze, cioè circa 100 mila soggetti. C’è la tentazione di considerare la questione una moda del momento, che chiama bullismo ciò che per decenni consideravamo normale. No, oggi abbiamo finalmente una sensibilità migliore e strumenti in grado di aiutarci a riconoscere che i ragazzi sono davvero vittime di bullismo e cyber bullismo e che si tratta di una sofferenza diffusa che non possiamo nascondere sotto il tappeto. Ultima cifra: 18000 sono i minorenni in carico al sistema giudiziario e 4000 sono diventati maggiorenni dentro al sistema carcerario. Di nessuno di loro possiamo dire che non ci importa, anzi abbiamo il dovere di capire come riportarli nel gioco della vita, capaci di diventare padroni del proprio destino. Il problema fondamentale, conclude Belletti, è educativo, il che non indebolisce la questione, piuttosto accentua la sua importanza perché riguarda il futuro di tutti. E il futuro di ognuno significa la costruzione della propria identità adulta, un investimento in termini di cura e impegno e anche di tempo che solo la specie umana ha: per diventare adulto ognuno di noi ha bisogno di un grande impegno da parte dei genitori e della comunità intera. Non può essere un carico solo dei genitori né la società può espropriare la famiglia di questo compito, alto e arduo come nessun altro.

La famiglia però ha bisogno e diritto a tutto l’aiuto necessario da parte della collettività; c’è la necessità di pensarsi insieme. I genitori non sono onnipotenti e la società non può fare a meno dei genitori, il tutto sfidato dal fatto che il processo educativo ha un attore irrinunciabile che è il bambino ed è una libertà in azione. E’ quindi in gioco questa triangolazione complicatissima. Ed è in questa complicata e impegnativa dinamica che si annida il rischio di un tradimento, dove la famiglia spesso incarna il modello spazzaneve rimuovendo ostacoli e frustrazioni e impedendo il fallimento, ritenuto spesso intollerabile, e la società pensa di poter sussistere senza legami. I legami sono ritenuti una corda che imprigiona e la società spinge troppo su un modello performativo. Ciò che serve è nuova speranza, spazio di protagonismo, fiducia e la possibilità di sbagliare e sperimentare e per farlo occorrono relazioni solide.

La parola passa a Silvio Cattarina, da decenni impegnato in prima linea sul fronte educativo. Perché oggi c’è tanto bisogno di educazione, domanda Gheno? Il tenore della risposta è tutto esistenziale perché è solo con la propria esistenza impegnata con l’ideale che si può davvero educare, non erogando un bene o un servizio di cui, in quanto adulti esperti, si dispone. Il dramma più grande, afferma Cattarina, è non riuscire ad ascoltare il mio cuore, tutto il desiderio di cui è fatto; questo è il dramma più doloroso per un ragazzo; la difficoltà più insopportabile è non capire quello che il suo cuore chiede e vuole. Ossia non avere vicino adulti, amici che lo aiutino a scoprire il suo cuore. Un ragazzo capisce la grandezza del suo cuore solo se viene chiamato da un adulto che, avendo già scoperto il suo e vivendo un’avventura affascinante, lo chiama. Questo è il grande tradimento: avere un cuore con dentro l’infinito e non essere aiutato a viverlo. La solitudine di cui parlano ha questa origine. Nessuno dice loro che il loro cuore è grande ed è fatto bene, che quello che il cuore attende e vuole c’è esiste e li attende e ci sarà per sempre. Nessuno che dice loro che la vita non sarà mai sconfitta, che Dio non verrà mai meno e non tradirà mai. Nessuno dice loro che la vita non finisce, che la morte non vince, che il covid finisce e le guerre cesseranno;  più nessuno dice loro che ci sono grandi dimensioni e avvenimenti: la mia persona, la realtà, il motivo per cui siamo a mondo. Quando chiedo a uno di loro quale sia la cosa più bella in tutto l’universo nessuno risponde “io”.

E quale sia la seconda cosa più bella nessuno considera che sia la vita stessa, la realtà perché per loro è tutta uno schifo. Perchè non è vero e lo testimoniano loro stessi per il fatto che tengono a loro, alla ragazza. La realtà è piena di doni, di appigli, c’è una chiamata lì dentro. La cosa più bella è incontrare il volto che c’è dietro a ogni cosa ed essere guardati da quel volto. Occorre essere al cospetto di una cosa: il bene il bene è sempre èiù grande di qualsiasi male. i ragazzi pensano che non sia bella e che il bene sia debole. Io sono cambiato quando ho scoperto che io sono il più povero e il più bisognoso di vita, di amore e di felicità. Guardate dove io guardo, non me. Che somma ingiustizia sarebbe se io avessi ciò a voi manca! Io sono utile a voi per il grido che testimonia tutto il mio bisogno di vita. La persona è questo grido, il grido che tutto mi venga dato in dono. Il grande bisogno per i ragazzi è la vita stessa! E la vita si chiede, si domanda, si invoca, si supplica, si prega, tutte parole che ci vergogniamo a usare.

Dalle parole di Cattarina emerge la grande passione per l’uomo in virtù di quello che tanti di noi, come lui, hanno incontrato. A Don Elio, educatore per tanti anni in prima linea e ora impegnato di più a livello di sistema, domanda cosa significa educare in un contesto di fragilità come quello di oggi.  Nella sua risposta considera innanzitutto l’importanza dello spazio e del tempo che si sta offrendo alla riflessione sull’educazione. Perché spesso si corre il rischio di non affrontarle mai come si conviene. Sintetizza alcuni suoi convinceimnti essenziali nel suo mestiere di educatore, che non è mestiere se non nel senso più umano del termine, e lo fa secondo la cifra del carisma a cui appartiene, che è quello salesiano.

Primo convincimento: bisogna stare in mezzo ai ragazzi e provarne piacere, il che non è scontato. Soprattutto con i pi fragili e affaticati quelli per cui, all’appello della prima ora di lezione, ti auguri che non siano presenti magari per una banali influenza. Manifestare attenzione e interesse personale e pensare, sul serio, che se tu ci sei o meno non è affatto la stessa cosa. Non vederli come “la mia classe”, “il gruppo degli studenti”, ma uno per uno, con nome e cognome. Meglio parlare coi giovani, non dei giovani, meglio ancora se parlano loro. Secondo convincimento: per tutti i giovani, nessuno escluso, il primo regalo è renderli protagonisti e non solo destinatari del fatto educativo. Facciamo tantissimo per loro, ma pochissimo con loro. Anche in questo don Bosco è maestro: guardate i volontari giovani che costruiscono il meeting, la cosa più grandiosa sono i loro volti, da protagonisti. Ogni adolescente muore dalla voglia che arrivi nella sua vita un adulto che gli dica “mi dai una mano?” Don Elio, così come gli altri relatori, racconta storie dei suoi ragazzi e regala anche le loro parole, dopo averglielo chiesto; le loro vite raccontano di come uno sguardo così, fatto di attenzione affettiva, sia stato in grado di farli rinascere, di ridare loro fiducia negli adulti e nella vita, di renderli finalmente protagonisti della loro esistenza che in molti già consideravano perduta.

L’ultimo intervento, prima delle parole della vice ministro Bellucci, è sulla dimensione del lavoro e del suo nesso con l’educazione. A parlarne, anche in questo caso, soprattutto attraverso le vite dei ragazzi che sono stati coinvolti in questa storia, è Odifreddi, fondatore della Piazza dei mestieri. Il lavoro oggi serve ancora per educare un ragazzo? Siamo così convinti che un lavoro serva che Piazza dei mestieri nasce da questa sfida: mettere insieme educazione e lavoro. Cercherò di dirlo facendo parlare esperienza dei nostri ragazzi, il lavoro educa alla libertà.  Thomas, che stava imparando il mestiere di panettiere da un maestro che aveva chiuso il suo esercizio e voleva insegnare la sua passione ai ragazzi, un giorno dice a Cristiana, co-fondatrice e preside: “ho capito che fare il pane è come far crescere un bambino fino a quando diventa un uomo. Io sto davanti al pane come davanti a un persona e mi sento libero”. Thomas dice in modo semplice quello che dice Mounier, cioè che lavorare è fare un uomo al tempo stesso di una cosa.

Maria Teresa Bellucci, che chiuderà gli interventi dei relatori, inizia ringraziando la sua famiglia che ha deciso di accompagnarla e lo fa anche per sottolineare quanto la famiglia sia la realtà centrale da cui parte e a cui tende ogni giorno, anche quando il tempo che ha a disposizione non è quello che vorrebbe. Riflette sul senso del titolo dell’edizione di quest’anno e si domanda che cosa sia, dunque, l’essenziale che cerchiamo e a che cosa dobbiamo educare, e ancora che cosa si intende per libertà, per chi e da cosa si è liberi? Ricorda che don Giussani diceva che la vera educazione consiste nell’educare il cuore dell’uomo. Educare non può prescindere dal mettere in relazione noi stessi con l’altro, dall’ imparare ad amare l’altro e noi stessi, facendo matematica o insegnando a fare il meccanico, non importa: l’essenza è prendersi cura dell’altro e di noi stessi. Liberi, da cosa e per cosa? Ho assistito a una politica, racconta Bellucci, che normalizzava una libertà scevra da doveri e diritti. Non è il mio concetto di libertà. Liberalizzare la cannabis non è il modo giusto di interpretare la libertà. La vera dipendenza che salva è quella dell’amore.Devo essere dipendente dall’amore, questo mi rende libero. il concetto di libertà per qualcosa che è più alto di me e mi spinge a cercare di essere migliore. Aggiunge altre considerazioni sull’ingerenza di uno stato che si occupi di te, pensando al tuo posto, un rischio sempre in agguato: la sua idea di politiche sociali, invece, si basa sul principio che ogni intervento di aiuto da parte dello stato non debba sostituirsi a te, ma darti opportunità. “Nessuno basta a sé stesso”,  ricorda di avere letto allo stand di Portofranco, una realtà che definisce meravigliosa. Certamente riguarda anche lo stato, lo stato non basta a sé stesso. Bisogna scommettere sull’umano, in una comunità che offra opportunità alla persona gratuitamente. (Fonte foto: Youtube – Meeting di Rimini)

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