«Ci vuole una legge» ha detto il Presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato nella conferenza stampa allestita per spiegare perché sono stati cassati i due referendum “eutanasia” e “cannabis”. «Ci vuole una legge», ha sottolineato specificando che «noi siamo d’accordo sull’eutanasia». Insomma, questi sarebbero i desiderata dei giudici della Consulta, certamente del Presidente Amato che ha benpensato di renderlo noto urbi et orbi.
«Ci vuole una legge», lo dicono più o meno tutti i benpensanti che invocano l’azione messianica del Parlamento. Perché in ballo, si ripete, c’è la sofferenza della gente.
«Ci vuole una legge sul fine vita» è un pensiero ampio e trasversale, poco importa che il nostro ordinamento preveda già il discutibile testamento biologico, una legge (poco in voga e per nulla finanziata) sulle cure palliative e la terapia del dolore, e che l’accanimento terapeutico sia una prassi e un caposaldo della deontologia medica. «Ci vuole una legge».
E verrà questa legge, ma non si dica che è per lenire le sofferenze delle persone, perché qui si entra in uno spazio sacro. La sofferenza è una cosa seria, a volte sembra disumana. Bisogna ammettere che solo la carità può sopportare queste vette di dolore, ma non nascondiamoci dietro ai fervorini o alle teorie, la carenza di carità che abita il nostro tempo non può che partorire la morte di stato.
L’uomo di oggi dove può trovare le forze morali per stare accanto alla sofferenza? Ci sono dolori che per essere affrontati richiedono sacrificio, rinuncia, abnegazione, senso di povertà, merce rara per generazioni cresciute con il mito del benessere.
Senza raggiungere vette altissime di sofferenza, in un contesto di famiglie esplose, divise e atomizzate, una pratica e ospedalizzata morte di Stato potrebbe essere la comoda via d’uscita, per “accompagnare” a togliere il disturbo l’anziano famigliare non più autosufficiente. Che magari si sta mangiando il bottino di una vita tra badanti e Rsa, o sta rovinando la famiglia perché non ha di che mantenersi e bisogna pagare per dargli un minimo di dignità.
Una volta c’erano gli istituti religiosi a prendersi cura dei sofferenti, polmoni di carità che pompavano ossigeno sulle ferite e sul dolore. Ma anche le suore di una volta non ci sono più, anzi ci sono sempre meno suore. Ci sono ancora persone nobili che si sacrificano, medici seri e liberi che si prodigano, infermieri con le ali sulla schiena, ma è troppa la solitudine. Tanto è l’egoismo, in un deserto di carità.
Legioni di redazioni, talk show, rapper e politici, non fanno che dire e ridire che «ci vuole una legge» per lenire la sofferenza. Ma più che lenire si finisce per elidere, per togliersela dai piedi. E l’eutanasia sarebbe anche un ottimo strumento di alleggerimento delle casse pubbliche.
L’atrofia del muscolo dell’amore è la vera autostrada per l’eutanasia. Contro il freddo vento mortifero che spira ci vogliono innanzitutto implacabili tecnici che non concedano un millimetro sul piano giuridico, medico, politico e mediatico. Le bocciature dei referendum sono lì a dimostrarlo. Certo. Ma qualcuno si preoccupi di questa atrofia del muscolo della carità. Perché chi non sa amare, difficilmente potrà amare la vita.
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