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Perchè padre Matteo Ricci e compagni puntarono tutto sull’apostolato della buona stampa
NEWS 12 Settembre 2016    

Perchè padre Matteo Ricci e compagni puntarono tutto sull’apostolato della buona stampa

di Gerolamo Fazzini

 

La missione in Cina nel XVII secolo è avvenuta in un contesto assolutamente particolare, che ha costretto i missionari a privilegiare una forma di annuncio molto specifico: il cosiddetto “apostolato della stampa”. Tra questi il gesuita Matteo Ricci, pioniere della missione moderna in Cina, il quale in una lettera scrive: «In questo Regno sono molto pregiate le lettere e conseguentemente le scientie e opinioni fondate nella ragione». Lo sforzo di Ricci e compagni ha prodotto, nell’arco di alcuni decenni, un corpus di opere a sfondo religioso-teologico in lingua locale che, per numero e qualità del contenuto, rappresenta probabilmente un unicum nella storia della missione cattolica universale. Dato il livello di raffinatezza nell’ambito del pensiero, delle discipline scientifiche, della cultura cui era arrivata la Cina, potremmo dire che quel Paese rappresentasse il “caso serio” dell’evangelizzazione dell’epoca. E che, di conseguenza, la missione che Ricci e compagni si trovarono ad esercitare non poteva giocarsi in un terreno più stimolante e, al tempo stesso, più difficile. 

I tratti peculiari del contesto culturale cinese di quel periodo sono efficacemente riassunti in un articolo che appare sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica, dal titolo «La Missione in Cina nel XVII secolo. L’apostolato della stampa e lo sviluppo di una teologia locale». Il pezzo è l’ultimo (per ora) di una serie di approfondimenti storici (e non solo) sulla missione cattolica in Cina, a dimostrazione dell’interesse con cui la Santa Sede segue le vicende del “Regno di mezzo” (è noto che le bozze di Civiltà Cattolica passano per la Segreteria di Stato vaticana). Firma il contributo il gesuita ed esperto sinologo belga Nicolas Standaert, di stanza da anni nella “grande Cina”. Standaert individua quattro fattori peculiari: l’uguaglianza dei mezzi di riproduzione culturale, la posizione dominante della parte cinese; l’imperativo culturale; la classificazione delle scienze. 

Il primo fattore che ha favorito l’introduzione del cristianesimo in Cina nel XVII secolo è il fatto che «la Cina e l’Europa erano culture con una complessità istituzionale, intellettuale e materiale relativamente uguale. In molte altre parti del mondo – America Latina, Africa, India, Filippine –il contatto avvenne tra culture con diverso livello di complessità». In cosa Cina ed Europa si assomigliavano, a quei tempi? Nelle tecniche di stampa (in Cina sviluppatesi ben prima di Gutemberg) e nel metodo educativo: quello cinese non meno avanzato di quello europeo, al punto che – nota Standaert – i gesuiti (noti per aver aperto collegi di qualità in tutto il Vecchio continente) non tentarono mai di fare altrettanto in Cina, almeno in un primo tempo. Quella cinese, nel XVII secolo, era infatti «una società altamente istruita, desiderosa di scambi filosofici o scientifici, manifestati nell’apprendimento dei libri». 

Un secondo aspetto importante è l’assenza pressoché totale, nella missione gesuitica in Cina, di un potere coloniale o esterno. Nello scambio culturale tra i due mondi, la parte cinese si trovava in posizione dominante: ad esempio, contrariamente a quanto accadeva in Giappone (dove un giapponese imparava il portoghese o il latino), nella Cina dell’epoca in cui vi soggiornarono Ricci e compagni gli stranieri dovevano necessariamente imparare il cinese dal momento che nessun cinese, con pochissime eccezioni, praticava lingue straniere. «Questo è un aspetto importante – puntualizza Standaert – perché, prima di dare risposte, le idee (teologiche) dovevano essere comunicate ed erano filtrate attraverso la lingua cinese e i suoi schemi di pensiero».  

Una terza caratteristica, collegata alla precedente: gli stranieri dovevano sottostare all’«imperativo culturale» cinese, che li obbligava a conformarsi alla cultura locale. Vale a dire che il cristianesimo non aveva alcuna alternativa possibile se non quella di fare i conti con il confucianesimo. In questo modo – osserva efficacemente Standaert – «il cristianesimo ha dovuto confrontarsi con un “altro” che sollevava questioni fondamentali nei confronti della tradizione cristiana (…) Questo confronto con l’altro produsse non soltanto pubblicazioni in Cina, ma anche un gran numero di pubblicazioni europee, che provocarono un disorientamento mentale nella teologia europea». Come sempre accade, quando l’incontro è profondo e autentico non lascia mai intatti gli interlocutori. 

L’ultimo aspetto riguarda la classificazione delle scienze. I missionari gesuiti usavano scienza e tecnologia per attirare l’attenzione dei cinesi colti. Tradussero le opere matematiche di Euclide con i commenti del famoso matematico gesuita Cristoforo Clavius, lavorarono all’ufficio astronomico imperale, scrissero libro sul calendario, sull’anatomia, sull’agricoltura e sulla tecnologia e stamparono una carta geografica di grandi dimensioni che recepiva i risultati delle ultime esplorazioni del mondo. Scrive Standaert: «Nel XVII secolo “scienza” e “religione” non erano ancora campi così separati, come avverrà poi nel periodo post-illuministico. (…) Questo spiega perché, per i missionari gesuiti, la matematica o l’astronomia non erano in contrasto con la diffusione del cristianesimo».  

L’insieme di queste caratteristiche rende davvero unica la missione cinese nel periodo di Ricci. Per dirla con Standaert: «Queste quattro caratteristiche spiegano perché l’apostolato attraverso la stampa sia divenuto uno dei principali mezzi di espansione del cristianesimo tra l’élites letterarie. Il numero di testi prodotti in cinese dai missionari e dai cristiani cinesi è impressionante, se paragonato a quello di altre aree missionarie»: oltre 120 circa testi riguardanti l’Europa e le sue scienze e almeno 470 testi (la maggior parte ancora disponibili) che trattano principalmente di argomenti teologici, religiosi e morali.  

«Questo – conclude Standaert – produsse lo sviluppo di una teologia locale che può essere considerata il fondamento della riflessione teologica nella Chiesa cinese». Il che da un lato ci restituisce la grandezza dello sforzo di Ricci e compagni e dei loro collaboratori (su tutti Xu Guanaqi – il “dottor Paolo”, il più importante tra i convertiti cinesi). Dall’altro, questa produzione teologica produsse risultati di assoluto rilievo, nel senso che approdò a una sorta di «monoteismo confuciano» (così lo chiama Standaert), centrato sulla fede in un Signore del Cielo, creatore onnipotente e giudice severo. Il punto cruciale di questo sforzo di sintesi è stata la trasformazione del termine astratto e impersonale «Cielo», la più alta forza o principio cosmico, in un Signore del Cielo personale. 

Tutto ciò a dimostrazione che – lascia intendere l’autore – un incontro profondo non solo tra Cina e Occidente, ma tra cultura cinese e fede cristiana è possibile e, anzi, fecondo. Anche oggi.