In questo concitatissimo fine 2022, in cui tutto sembra accelerare, se ne va anche Pelé, “O Rei”, il Re (qualcuno ha scritto che dalla sua morte il calcio è tornato ad essere una Repubblica). Lo ha fatto portandosi dietro 1281 goal (ma sul numero si discute, c’è chi dice siano oltre 1300) nonché – unico giocatore nella storia – tre Coppe del Mondo, la prima vinta a soli 17 anni.
NATO SOTTO I TRE SANTISSIMI CUORI
In queste ore la stampa mondiale ripercorre le tappe di una carriera miracolosa, quasi ammantata di sacro. Non è un caso, forse, che l’epopea della “Perla nera” inizi nel segno dei santissimi cuori di Gesù, Giuseppe e Maria. Três Corações (tre cuori) è il nome della cittadina nel sud del Brasile che il 23 ottobre 1940 diede i natali al piccolo Edson Arantes do Nascimento. Ma se al soprannome Pelé si arriverà intorno agli otto anni (storpiando in “Pilè” il nome del suo amato portiere Bilè, il nomignolo, mai troppo gradito, gli fu affibiato a mo’ di sfottò dai bambini con cui giocava), la scelta di chiamare quel figlio Edson dice molto sulla povertà della sua famiglia. L’elettricità, appena arrivata a rischiarare le dure giornate, indusse papà Joao Ramos (calciatore infortunatosi troppo presto) e mamma Maria Celeste a ringraziare il cielo omaggiando Thomas Edison, inventore di quel così grande “dono”. Fa niente se poi all’ufficio anagrafe dimenticarono una i.
PER VEDERE PELÉ SI FERMÒ UNA GUERRA
A modo suo anche Pelé diventerà un «inventore» (che ha «illuminato» il mondo) ma quello che è divenuto lo deve ai suoi faticosi e tormentati inizi: circondato da povertà estrema, colui che paradossalmente arriverà ad essere ambasciatore ONU, si mise letteralmente mettersi in ginocchio per pulire le scarpe ai passanti. Pur di mangiare, dunque, “O Rei” ha fatto il lustrascarpe.
Quando tornava a casa, però, Edson si metteva a giocare. Lo faceva prendendo a calci un calzino riempito di vecchi stracci, in una rappresentazione visiva così potente da rimanere per sempre lo sfondo per ogni racconto sulle origini del giovane campione. Il resto è storia. Quella del racconto che Ronald Reagan fece della visita del campione alla Casa Bianca («Mi chiamo Ronald Reagan, sono il presidente degli Stati Uniti d’America. Ma non c’è bisogno che tu ti presenti, perché tutti sanno chi è Pelé»), o quella racchiusa nel cessate il fuoco di 48 ore, concordato nel conflitto tra Nigeria e Biafra, per consentire di veder giocare Pelé nello stadio di Lagos, capitale di una delle due regioni in guerra.
Tecnica, velocità, dribbling, accelerazioni fulminee, acrobazie; fortissimo con entrambi i piedi, forte anche di testa. Pelè era tutto questo, tanto che per Gianni Mura «in campo sapeva fare tutto, per scienza infusa»; per Josè Altafini era «un fenomeno baciato da Dio»; per Gianni Brera si trattava di «un mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione». Tarcisio “la roccia” Burnich, storico terzino dell’Inter, sul suo conto aggiungeva: «Semplicemente, quello che io faccio con le mani, Pelè lo fa con i piedi».
«IL CALCIO? UN TENTATO RITORNO AL PARADISO»
Se Pasolini aveva paragonato il calciatore a un poeta («Ogni goal è sempre un’invenzione, una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno»), Joseph Ratzinger – che in queste ore tiene il mondo col fiato sospeso a causa delle sue delicatissime condizioni di salute – è riuscito in un paragone ben più ardito (e affascinante): per il più grande teologo del ‘900 il calcio sarebbe «un tentato ritorno al Paradiso». Perché i mondiali di calcio riescono ad esaltare miliardi di persone a tutte le latitudini? Perché in Brasile (a firma del presidente uscente Bolsonaro) sono stati promulgati tre giorni di lutto in onore di Pelè, “tesoro nazionale”? Semplicemente perché il calcio – secondo Ratzinger – «tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità». La più geniale descrizione del gioco del calcio mai scritta (si può trovare nel suo Cercate le cose di lassù, libro uscito nel 1986 per le edizioni Paoline) continua così: «In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al Paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello».
L’IDENTIKIT DI UN «SIMBOLO DI RISCATTO E SPERANZA»
Seppur indirettamente, colui che diciannove anni dopo diventerà pontefice col nome di Benedetto XVI, non ha fatto altro che descrivere il contesto umano e spirituale di Edson Arantes do Nascimento, bambino poverissimo (che incontrerà nel 2006 in udienza privata) intento a correre nelle sue favelas dietro a un pallone di stracci, ma che ha finito per dare voce ai poveri della sua terra senza mai smettere di ringraziare Dio per il dono del suo infinito talento. Le parole di Bernard Rajzam, amico personale di Pelè e autore di un ricordo appassionato apparso ieri sull’Osservatore Romano, sembrano confermare tutto: «Il mito di Pelé, il suo essere simbolo di riscatto e di speranza, di umanità e di talento, continuerà a rinascere e a vivere in ogni bambina e in ogni bambino che, soprattutto in una favela, alzerà lo sguardo verso il cielo e inizierà a correre cercando una vita migliore anche attraverso lo sport».
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