Di Tommaso Scandroglio, da La Nuova Bussola Quotidiana
Ha preso l’avvio ieri e si concluderà oggi il Meeting Regionale Europeo della World Medical Association organizzato in Vaticano unitamente alla Pontificia Accademia per la Vita sui temi cosiddetti di “fine vita”. La World Medical Association non è un ente o un’associazione in qualche modo legata alla Santa Sede, ma è una laicissima associazione di medici. Alcuni suoi membri, come Benedetta Frigerio ha già avuto modo di illustrare da queste colonne qualche giorno fa (clicca qui), sono infatti a favore di eutanasia e aborto.
Ieri Papa Francesco ha inviato i suoi saluti ai partecipanti di questo convegno (clicca qui). Basta dare un'occhiata alle prime reazioni della grande stampa per comprendere che il messaggio del Santo Padre presenta accanto a passaggi sicuramente condivisibili, altri ambigui ed altri ancora formulati in modo erroneo. Esaminiamo quelli più problematici.
Il Papa parte da un fatto: la medicina ha fatto passi da gigante e questo può avere effetti positivi e negativi. In merito agli aspetti positivi il Pontefice afferma: «La medicina ha infatti sviluppato una sempre maggiore capacità terapeutica, che ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. Essa ha dunque svolto un ruolo molto positivo». Subito dopo Francesco elenca invece i rischi di tale progresso scientifico-tecnico: «D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona». A seguire il Papa cita, per commentare tali effetti nocivi, alcuni documenti del Magistero che trattano dell’accanimento terapeutico. Ora occorre chiedersi se le situazioni descritte dal Papa configurano accanimento terapeutico. Vediamole una ad una.
Il Papa da una parte afferma che vivere più a lungo è un bene, ma vivere più a lungo in condizioni di salute critica non lo è. Occorre a questo proposito ricordare che curare un paziente permettendogli di vivere più a lungo, sebbene con una qualità di vita non elevata perché affetto da gravi disabilità, patologie croniche severe, etc., non configura accanimento terapeutico. L’accanimento terapeutico infatti, come ricorda correttamente il Pontefice, è una sproporzione tra trattamenti e risultati sperati. Se grazie alla tecnologia oggi disponibile posso mantenere in vita per lungo tempo una persona affetta da sindrome della veglia aresponsiva (il cosiddetto paziente in stato vegetativo) ciò non configura accanimento terapeutico, ma in realtà è un obbligo morale in capo al medico e al paziente. La proporzione, in questi casi, deve guardare all’effetto positivo “vita”, non al “benessere”. In caso contrario scadremmo nell’etica della qualità della vita e non prestare le dovute cure configurerebbe un caso di eutanasia omissiva. Come ebbe a scrivere la bioeticista Claudia Navarini, per i sostenitori dell’eutanasia «non sarebbero eventuali trattamenti gravosi e inutili a costituire una forma di accanimento, ma sarebbe un accanimento il fatto stesso di mantenere in vita un morente o un malato grave» (C. Navarini, Eutanasia, in T. Scandroglio, Questioni di vita o di morte, Ares). I casi Welby, Eluana e Charlie sono paradigmatici in questo senso.
Altra frase problematica del Santo Padre già prima citata: «Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi». Ricordiamo che tali interventi per il Papa sono effetti negativi dell’ipertecnologia della medicina e configurano accanimento terapeutico. Ma l’accanimento terapeutico si realizza proprio quando il trattamento è inefficace. Quando invece, come scrive il Papa, fosse efficace, anche se non risolutivo, l’intervento è moralmente accettabile. Molti di noi portano gli occhiali: correggono un difetto della vista, ma non risolvono il difetto della vista. Eppure questa protesi non può venire derubricata ad accanimento terapeutico. Se i medici dovessero astenersi da tutti gli interventi non risolutivi, addio ad esempio alla cura della patologie croniche. Il medico, come ricorda lo stesso Pontefice, è chiamato non solo a guarire, ma anche a curare, cioè a migliorare o stabilizzare le condizioni di un paziente che per ipotesi mai guarirà.
Ulteriore periodo molto scivoloso: alcuni interventi «possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute». In merito al sostentamento delle funzioni biologiche possiamo riferirci alla nutrizione, idratazione e ventilazione assistita (ma non solo a loro dato che l’espressione “funzioni biologiche” può essere riferita ad un infinità di attività dell’organismo: la funzione metabolica epatica, la funzione endocrina, etc.). Se questi presidi vitali riescono a soddisfare il loro fine proprio – cioè adiuvare l’assimilazione di cibo, di liquidi e la respirazione – se non c’è sproporzione tra sollievo arrecato e dolore inferto e tra beneficio prodotto e danni procurati, allora significa che questi mezzi di sostentamento vitale non scadono nell’accanimento terapeutico, bensì equivalgono «a promuovere la salute» e «giovano al bene integrale della persona». Non somministrarli configurerebbe una scelta eutanasica. Anche laddove l’intervento avesse carattere sostitutivo – pensiamo ad esempio alla circolazione extracorporea durante un’operazione chirurgica – ciò non significa che di per se stesso l’intervento rappresenta una forma di accanimento terapeutico.
In breve al passaggio già menzionato, «gli interventi sul corpo […] possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute», occorreva aggiungere un “sempre”: «gli interventi sul corpo […] possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale sempre a promuovere la salute», perché in particolari circostanze tali interventi seppur adiuvanti o sostitutivi di funzioni biologiche possono configurare accanimento terapeutico.
Altro passaggio critico. Chi deve decidere se c’è o meno accanimento terapeutico? Il Papa afferma che l’ultima parola spetta al paziente, seppur in dialogo con i medici: «È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante». Francesco cita a questo proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (n. 2278). Però leggiamo per intero il periodo citato parzialmente dal Papa: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».
Il Catechismo ci dice questo: per capire se i trattamenti terapeutici configurano accanimento terapeutico occorre da una parte la competenza del medico, che ci potrà dire se, secondo letteratura e sua esperienza personale, quel tipo di cura è efficace o meno, e dall’altra il paziente, perché è solo lui, a patto che sia vigile e cosciente, che ci può comunicare ad esempio se tale cura gli reca troppo dolore, se si sente meglio, etc. Detto ciò però il criterio indicato dal Catechismo non scade nel soggettivismo assolutista, infatti il Catechismo specifica che le volontà del paziente devono essere rispettate solo se ragionevoli, cioè conforme a morale, e solo se dunque tutelano gli oggettivi interessi del paziente, ossia la sua dignità.
Detto in soldoni: se una paziente dichiarasse che non vuole più nutrirsi con le peg perché a suo insindacabile giudizio la nutrizione assistita configura accanimento terapeutico, questa volontà sarebbe irragionevole e quindi non da rispettare. L’ultima parola spetta alla valutazione del bene oggettivo della persona, bene oggettivo spesso non riconosciuto dalla persona stessa. Di contro, rispettare sempre e comunque il giudizio del paziente su cosa è o non è accanimento terapeutico aprirebbe la porta all’eutanasia. Quella stessa porta che il Santo Padre, nel messaggio inviato ai partecipanti del convegno che si sta svolgendo in Vaticano, vorrebbe che rimanesse sempre chiusa.
Infine una nota di carattere generale. Il messaggio del Papa è incentrato per buona parte sull’accanimento terapeutico perché «oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo». Parrebbe quindi che il vero pericolo oggi nelle corsie di ospedale sia l’accanimento terapeutico e non l’eutanasia. Ma così non è. Le norme esistenti in molti Paesi, le pratiche cliniche diffuse, le linee guida di alcune società mediche, i fatti di cronaca come quelli che hanno interessato il piccolo Charlie e dj Fabo, le cliniche per la “dolce morte” sparse qua è là nel mondo, ci portano a dire che la vera emergenza è l’eutanasia, non certo l’accanimento terapeutico.
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