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Padre Pio e Guareschi, una vita a parlare con il Crocifisso
NEWS 23 Settembre 2018    di Samuele Pinna

Padre Pio e Guareschi, una vita a parlare con il Crocifisso

Cosa accomuna un umile e santo frate cappuccino col dono delle stimmate con un noto giornalista e scrittore di successo? Pio da Pietrelcina e Giovannino Guareschi hanno qualcosa da spartirsi?

È certo che entrambi hanno lasciato questa vita terrena per quella eterna cinquant’anni orsono e se non vi sono accenni o citazioni su Padre Pio negli scritti di Guareschi, sopra il suo tavolo di lavoro c’è, oltre a un’immagine del Sacro Cuore, un’immaginetta del Santo francescano.

Sicuramente, poi, sono state due figure che hanno segnato un’epoca e forse più di qualche tratto in comune l’avevano. E, senz’altro, il primo è stato l’aver dovuto sopportare il dolore fisico e morale unito ai dispiaceri per le incomprensioni. La via maestra per la santificazione del frate cappuccino fu quella della sofferenza accettata con abnegazione e – paradosso cristiano – come dono: «so benissimo – ha scritto – che la croce è il pegno dell’amore, la croce è caparra di perdono: e l’amore che non è alimentato, nutrito dalla croce, non è vero amore, esso si riduce a fuoco di paglia» (Epist. I, p. 571). Giovannino, d’altro canto, ha trasformato l’odio e la violenza subiti in canto di speranza: la prigionia nei lager aveva messo a nudo l’uomo, permettendogli di tirare fuori la sua parte migliore. Nel campo di concentramento, infatti, si era dovuto spogliare di tutte le maschere esteriori, mostrando il suo lato più intimo e profondo. Si intuisce dal suo diario clandestino come, in quei frangenti, solo Qualcun Altro può dare la forza di vivere un presente tanto miserevole. Quella esperienza (ma anche il successivo ingiusto arresto) rende Guareschi capace di un umorismo mai beffardo e in grado di aiutare a leggere la realtà per quello che è, ricercando ovunque il bene. E questo lo annovera insieme a tanti altri scrittori che senza aver vissuto una profonda ferita interiore non avrebbero probabilmente lasciato ai posteri i loro capolavori. Forse, lo stesso Dante non sarebbe riuscito a comporre la Commedia se non in un esilio faticoso e umiliante, Tolkien non avrebbe mai ideato la sua epica se non avesse sperimentato la durezza della trincea durante il primo conflitto mondiale, Chesterton non sarebbe divenuto quell’impareggiabile polemista se non fosse passato da una adolescenziale depressione dovuta alla non completa accettazione di sé…

Se Padre Pio abbraccia con amore la sofferenza, Guareschi se ne lascia plasmare e ciò consente a tutti e due di essere chiari nei loro giudizi sulla realtà. Il Santo francescano avverte l’urgenza di spendersi in un martirio continuo: «Non vi nascondo però le strettezze che prova il mio cuore nel vedere tante anime che vanno apostatando da Gesù; e quello che più mi fa agghiacciare il sangue intorno al cuore si è che molte di tali anime si allontanano da Dio, fonte di acqua viva, pel sol motivo che si trovano esse digiune della parola divina. Le messi sono molte, gli operai sono pochi. Chi dunque raccoglierà le messi nel campo della Chiesa, che sono ormai tutte imminenti alla maturità? Andranno esse disperse sul suolo per la paucità degli operai? Saranno esse raccolte dagli emissari di satana, che purtroppo sono moltissimi ed assai attivi? Ah!, nol permetta mai il dolcissimo Iddio; si muova a pietà dell’umana indigenza» (Epist. I, p. 228). Dal canto suo, Guareschi vede con preoccupazione i mutamenti culturali, ma sopravvive in lui un moto di speranza, come quando nel racconto È di moda il ruggito della pecora don Camillo chiede al Crocifisso cos’è quel vento di pazzia che fa correre il mondo verso la sua rapida autodistruzione. Al prete della Bassa è ricordato che il sacrificio del Figlio di Dio non è stato inutile, nonostante la malvagità degli uomini sembri più forte della bontà di Dio. Don Camillo è conscio che esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede: «“L’uomo – dice a Gesù –, mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L’unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato. Un giorno non lontano si troverà come il bruto delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito dell’uomo sarà quello del bruto delle caverne […]. Signore, se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?”. Il Cristo sorrise. “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più, ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede”».

Il Santo di Giovanni Rotondo e l’inventore di don Camillo sono, allora, accomunati dalla diffusione di una alta spiritualità cristiana, l’uno dedicandosi, senza riserve, all’ascolto nel confessionale e alla direzione delle anime, l’altro mediante l’arguzia della sua penna. Non solo, si assomigliano anche per i loro caratteri non privi di humor, per l’amore verso una vita di bene donata per quello che ha vero valore, per l’attaccamento alla propria terra e alle proprie origini, che li rendono per ciò stesso universali, al di là cioè dello spazio e del tempo, e, tra altre cose, per la devozione verso il Cristo, con cui stare piacevolmente a discorrere.

Se dopo l’orrore della guerra il Santo di Pietrelcina dirà: «il Signore è ancora sdegnato per l’iniquità dei figli degli uomini, ma egli certamente non ci giudicherà a rigore di giustizia (Epist. I, p. 813), Guareschi ricorderà sempre ai suoi lettori che anche uno come Peppone può salvarsi, perché «in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un’aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, perché là hanno un’anima anche i cani. Allora si capisce meglio don Camillo, Peppone e tutta l’altra mercanzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente però: cioè senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d’accordo nelle cose essenziali. Perché è l’ampio eterno respiro del fiume che pulisce l’aria…».

Il mondo piccolo fatto di leggere e pensose novelle o il piccolo mondo di un convento francescano fanno fondere poesia e mistica, tradizione e realtà, verità e giustizia, fede e provvidenza, amore per Dio sopra ogni cosa e amore per il prossimo, che diventano alcune delle caratteristiche che rendono vicine due figure, quelle di Padre Pio e Giovannino Guareschi, solo apparentemente lontane.


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