Almeno alle Olimpiadi di Tokyo l’abito non fa il monaco. Non è l’immagine ad essere al centro, men che meno la moda. A prevalere è altro. L’attaccamento alla bandiera, alla Nazione. Perfino la semplice comodità. Un (piccolo) buon segnale da cui ripartire.
Le divise nella spazzatura?!
Se è vero come è vero quanto andava dicendo Margaret Thatcher, «un uomo può scalare l’Everest per se stesso, ma al vertice pianterà la bandiera del suo paese», allora si comprende la polemica che ha costretto alle scuse la squadra di softball messicana, rea di aver abbandonato le divise di fianco alla spazzatura prima di ripartire. «Questa uniforme rappresenta anni di sforzi, sacrifici e lacrime – ha twittato la pugilessa messicana Cruz Sandoval, la prima a imbattersi nelle divise “rinnegate”-, tutti noi atleti messicani desideriamo indossarla con dignità, e oggi purtroppo la squadra di softball messicana l’ha lasciata nella spazzatura nel Villaggio olimpico».
É dovuta intervenire la lanciatrice della squadra, Danielle O’Toole, per rianimare il patriottismo perduto. «Mi assumo la responsabilità di aver lasciato alcuni vestiti a Tokyo. Ho chiesto al servizio postale del villaggio se spedivano scatole all’estero e mi hanno detto che spedivano solo lettere. Avremmo dovuto fare più domande, prendere in considerazione l’idea di regalarle, qualsiasi cosa, tranne lasciarli nel modo in cui abbiamo fatto e per questo sono estremamente dispiaciuta. Dal profondo del mio cuore».
SE LA VALIGIA è piccola
Lo strapparsi le vesti schietto e sincero della O’Toole può apparire ingiustificato solo per coloro ai quali divisa, patria e bandiera non dicono più nulla, e queste Olimpiadi ci hanno insegnato essere pochissimi. Il fatto poi che la divisa sia rimasta lì perché non entrava nella valigia («Ho cercato molto duramente di inserire il più possibile vestiti, articoli da toeletta e oggetti di valore affettivo nell’unica valigia che era consentita», così la giocatrice messicana) rende soltanto tutto più ordinario, più umano. Tanto che la lanciatrice di softball chiosa così: «Non c’è giustificazione, avremmo potuto fare di più. Mi dispiace e spero che tutti voi possiate accettare le mie scuse. Indossare il Messico sul petto è stato un onore e un privilegio». L’attaccamento alla bandiera è ampiamente dimostrato. L’onore è salvo.
Abbigliamento troppo coprente
Ha fatto scalpore la notizia della Federazione di pallamano di multare le atlete della nazionale norvegese per non aver indossato il bikini “d’uniforme”. Ai recenti Campionati europei le norvegesi hanno sfidato le rivali spagnole con degli inediti pantaloncini, ben più coprenti, eppure – secondo la Federazione – «non conformi al regolamento delle uniformi delle atlete». Il regolamento internazionale di pallamano prevede testualmente che le giocatrici indossino i bikini «aderenti, con un angolo verso l’alto, verso la parte superiore della gamba». La multa per «abbigliamento inappropriato» (perché troppo coprente) a molti è apparsa irricevibile, anche perché il gesto non era ispirato da nessuna rivendicazione politica: si trattava di pura e semplice comodità.
Pink: «pago io la multa»
A “rovinare” tutto è arrivata Pink. La rockstar americana si è offerta di pagare i 1.500 euro di multa inflitti al team (e fin qui bene), tirando però in ballo, al solito, sessismo e strumentalizzazioni varie (su cui i media hanno inzuppato per giorni). Dopo aver scritto di essere «molto orgogliosa della squadra femminile norvegese» ha aggiunto: «la federazione europea di pallamano deve essere multata per sessismo. Brave, signore. Sarò felice di pagare le vostre multe. Continuate così». In ogni caso il ministro dello sport norvegese Abid Raja, parlando di una multa «assolutamente ridicola», ha fatto intendere che non ha nessuna intenzione di pagarla.
«Il body è troppo sexy»
Se la “guerra degli shorts contro i bikini” – com’è stata ribattezzata – l’hanno iniziata le ragazze norvegesi, alle Olimpiadi di Tokyo sono state le ginnaste tedesche a proseguirla. «Il body è troppo sexy», ha sentenziato la squadra tedesca, che ha rinunciato ai soliti body, aderenti e sgambati, per sfoggiare comode tute intere. Se perfino Repubblica si preoccupa, arrivando a scrivere che le tute «coprono le gambe fino alla caviglia e non lasciano spazio ad attenzioni sessuali» (fatto che dovrebbe mettere in allarme: nel rimescolamento in corso manca solo che il coprirsi venga percepito come una scelta femminista), è tuttavia innegabile che un problema c’è. Specie in queste Olimpiadi, dove, fatto inaudito, è accaduto che il capo del broadcasting olimpico convocasse le televisioni per discutere di riprese che – scrive la Stampa – «non indugino su particolari e intimità». Il (semplicissimo) problema del rifiuto del bikini lo spiega bene Mashable Italia: «A volte, durante i numeri, il tessuto si sposta lasciando intravedere più del dovuto. I costumi non possono essere sistemati in gara: pena la riduzione dei punti».
«Sei un’atleta, non un seduttore». Parola di Bubka.
Un responsabile commerciale di GK Elite, il primo produttore americano di divise ginniche, afferma che le richieste di tute coprenti finora sono arrivate da paesi che preferiscono questa tipologia di abbigliamento per motivi religiosi. «Siamo in grado di disegnarle e produrle – ha aggiunto il responsabile – ma per ora non siamo nella prospettiva di una domanda di tipo consumistico». Se la spinta della Germania a fare da apripista alla nuova tendenza non è dovuta ancora all’idea che «il buon costume sia sempre più manifestazione di un cuore veramente salvato» – come scrive Costanza Miriano nell’ultimo numero del Timone -, bensì soltanto all’età non particolarmente bassa delle sue atlete (la ginnasta tedesca Kim Bui ha 32 anni, tradizione vuole che in ginnastica artistica si gareggi già a 14 anni), al cristiano è dato di guardare il bicchiere mezzo pieno. E magari di invitare le federazioni smaniose di multe ad ascoltare quanto diceva Sergey Bubka, il saltatore con l’asta più grande di tutti i tempi: «Sei un atleta, non un seduttore. Non devi stare lì ad ammirarti, ma a gareggiare. Lo sport non è una sfilata, è provarci per davvero con tutto te stesso».
Strapparsi la maglietta (PER AMORE)
Su una cosa sono tutti d’accordo, lo sport deve insegnare a dare il massimo, a dire: più di così non potevo fare. E con il fantastico oro nei 400 ostacoli il norvegese Karsten Warholm ha pienamente raggiunto lo scopo. Ma dopo aver abbattuto lo storico muro dei 46 secondi (soglia forse paragonabile solo ai 10 secondi nei 100 metri o ai 6 metri nel salto con l’asta), che combina il giovane vichingo? Cosa gli salta in testa al termine di una gara che ha lasciato il mondo senza fiato? Warholm lancia un urlo e si strappa la maglietta (sì, si può fare anche per troppo amore). Insomma, come il “nanetto” Zaccheo che sale sul sicomoro, la gioia incontenibile è destinata a farsi beffe di tutto. Anche dell’etichetta.
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