di Francesco Cavina*
Tutte le letture delle tre messe di Natale, anche se con prospettive diverse, vogliono aiutarci a comprendere il senso del Natale e a scoprire l’identità del bambino che festeggiamo.
Il brano di vangelo di questa notte ci racconta la nascita nella storia di Gesù a Betlemme. L’avvenimento è caratterizzato da un grande contrasto. Da una parte la storia dell’umanità che segue il suo corso naturale con il potente di turno, l’imperatore Augusto; con due genitori che non avendo raccomandazioni umane non riescono a trovare un alloggio decoroso; con la nascita di un bambino che inizia il suo cammino terreno in una stalla.
Dall’altra parte lo splendore della luce celeste e l’apparizione degli angeli che annunciano ai pastori una grande gioia. Dunque, in questa notte, così simile a tante altre, in realtà succede qualcosa di nuovo, di straordinario, di grandioso, di unico.
San Paolo scrivendo al suo discepolo Tito, convertito dal paganesimo, dice chi è questo bambino nato a Betlemme nella povertà. E’ Dio stesso, il quale è venuto per porre fine alla paura e al terrore in cui l’uomo vive ed offrirgli la possibilità di godere della giustizia, della pace e della gioia frutto della presenza di Dio nel mondo.
Questo Re, questo unico Salvatore, a differenza di tutti gli altri, non chiede nulla per sé. Nel corso della storia dell’umanità tanti si sono presentati dicendo: «Sono io l’uomo giusto. Io conosco la via. Io penserò alla giustizia. Io vi farò avere il paradiso. Voi dovete soltanto ascoltarmi, seguirmi, scegliermi e concedermi tutti i poteri».
Cristo, invece, a chi si sente stanco, solo, sfiduciato, a chi ha il cuore chiuso, a chi è refrattario alla fede, a chi si sente devastato moralmente e spiritualmente rivolge un pressante appello: “Venite!”, “Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11.28). Il Signore può “ristorarci” perché Lui è l’uomo per eccellenza, il “primogenito di ogni creatura”, il Maestro, il fratello di tutti, l’avvocato dei poveri, l’amico dei piccoli, il compagno dei sofferenti, il redentore dei peccatori, in una parola il nostro Salvatore.
Non capisce nulla del cristianesimo chi non comprende che la sequela di Gesù non è innanzitutto una fatica, una rinuncia per raggiungere un premio, ma è il centuplo, è pienezza di umanità. Nel cristianesimo non è l’uomo che cede qualcosa a Dio, ma è Dio che si offre, che dona la vita per noi, per il nostro bene e la nostra felicità. Per chi accoglie questo bambino, nato nella stalla, inviato come Salvatore dall’amore e dalla misericordia di Dio, non c’è più buio, incertezza ed ansia, ma luce, ferma speranza, gioia e pace. Infatti, dal Natale scaturisce la contemplazione dell’inizio del nostro stupendo destino di redenti. San Giovanni Crisostomo scrive: «In questa notte è stata piantata sulla terra la condizione dei cittadini celesti, gli angeli entrano in comunione con gli uomini, i quali si intrattengono senza timore con gli angeli. Ciò poiché Dio è sceso sulla terra e l’uomo è salito al cielo. Ormai non più separazione fra cielo e terra, tra angeli ed esseri umani».
Perché si realizzi l’abbraccio, anzi la comunione con il Cristo, vero Dio e vero uomo, è necessaria da parte nostra la fede. Forse è opportuno che abbiamo l’umiltà di dire con l’anonimo personaggio del Vangelo: «Credo, o Signore, ma tu aiuta la mia incredulità» (Mc 9.24).
*vescovo emerito di Carpi
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