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Non è la pandemia a svelarci che un capitalismo ha fallito
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28 Dicembre 2020

Non è la pandemia a svelarci che un capitalismo ha fallito

Pubblichiamo alcuni stralci di un articolo di Mario Palmaro, Capitalismo, il dio che ha fallito?, pubblicato sul Timone n. 77, novembre 2008. Da pochi mesi era crollata come un castello di sabbia la banca americana Lehman Brothers, ma rileggendo oggi quelle righe di Palmaro, con la critica al «modello del debito» e a quello liberale e liberista, dovremmo fare una semplice costatazione: non è la pandemia in atto a svelare le magagne nel Dna del “nostro” modello di sviluppo. (L.B.)

(…) Forse questo tracollo finanziario vuole ricordarci che un giorno anche il sistema economico moderno “dovrà morire”, sostituito da altri, oggi imprevedibili, meccanismi. I fatti smentiscono la tesi della “fine della storia” elaborata da Francis Fukuyama. E rendono ancor più velleitarie le tesi sostenute anni fa dalla rivista National Interest di Harvard, secondo cui «l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come forma finale (sic!) del governo umano, costituisce il punto terminale dell’evoluzione ideologica dell’umanità».

Insomma: per anni ci avevano assicurato che il sistema liberale e le economie di mercato costituivano una sorta di approdo definitivo del progresso umano. Un modello al quale occorre adeguarsi senza discutere e senza criticare, affidandosi con fiducia a quella “mano invisibile” di cui parla Adam Smith. Oggi, di fronte al crollo della finanza moderna, qualcuno dovrebbe chiedere scusa a quel grande Papa che fu il beato Pio IX, che nel Sillabo aveva fulminato la proposizione secondo cui «il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la modernità venire a patti e conciliazione». Parole che per decenni sono apparse imbarazzanti, al punto di essere rimosse da buona parte della stessa pubblicistica cattolica. Ma che contenevano la profetica percezione dei limiti inscritti nel modello liberale. È una dura lezione per tutti coloro che credevano che il centro del mondo si fosse spostato a Wall Street. Noi, invece, abbiamo sempre saputo, e i fatti lo confermano, che quel centro è Roma, è San Pietro, è la Chiesa cattolica. Che sta fissa come la Croce, mentre intorno tutto passa.

Ma c’è un altro aspetto che deve essere sottolineato. Il sistema economico oggi alle corde è il prodotto di uno stile di vita fondato sul debito. Basato cioè sull’idea che la gente deve essere invogliata a spendere soldi che ancora non ha guadagnato. E ad arricchirsi senza lavorare, semplicemente acquistando i titoli giusti. Il consumismo crea falsi bisogni e induce le persone a soddisfarli ricorrendo al credito. E genera l’illusione che il mondo della Borsa produca ricchezza senza sudore. Quando questo modo di fare viene assunto da fette imponenti di consumatori, ben presto si diffonde l’insolvenza e la speculazione come stile di vita. Si noterà che l’etica cattolica, ben espressa dalla cultura contadine tipica della tradizione italiana, si assesti su una posizione diametralmente opposta: quella del risparmio.

Il capofamiglia italiano è stato per secoli un lavoratore instancabile e una formica che metteva da parte i suoi pur magri guadagni. Uno che si vergognava di avere un debito in sospeso. Da tempo questa tradizione è sotto attacco, accusato di intralciare lo sviluppo e l’avanzamento, appunto, del modello basato sul debito. L’italiano è stato accusato per anni di “spendere troppo poco in borsa”, di non avere “una cultura degli investimenti”. Oggi, nel bel mezzo di questo cataclisma finanziario, le cose ci appaiono con una luce ben diversa.

Del resto, dietro ogni sistema economico c’è sempre una concezione dell’uomo, una morale, un’idea di Dio (o una sua totale negazione). Non bisogna dimenticarsi che all’origine dell’esperimento americano non c’è il cattolicesimo, ma il protestantesimo. In particolare quella concezione calvinista per la quale il successo economico è un segno inequivocabile della “predestinazione” alla salvezza eterna, e il self made man, l’uomo d’affari che si è fatto da sé, è il campione da imitare. Il cattolicesimo non è mai stato, né mai sarà “pauperista”: non disprezza i beni materiali e non condanna l’intraprendenza privata e il desiderio di miglioramento insito nella natura dell’uomo. Ma la Chiesa non ha mai insegnato che quelli che “fanno carriera” sono i preferiti del Signore. Nessun Papa ha mai detto che l’uomo “si fa da solo”. Il modello antropologico della tradizione cattolica non è l’uomo vincente, ma quello disposto a combattere la buona battaglia. È il cavaliere che si batte per l’orfano e per la vedova, senza avere alcuna certezza della vittoria. Un tipo umano che difficilmente si arricchisce comprando bond e obbligazioni. (L’articolo integrale è comparso su Il Timone n. 77, novembre 2008)

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