In questi giorni si è accesa la discussione attorno alla proposta di legge sull’introduzione dell’obbligo di esporre il crocifisso in tutti gli uffici pubblici depositata alla Camera lo scorso 26 marzo, che vede come prima firmataria la deputata leghista Barbara Saltamartini, seguita da Massimiliano Fedriga, Giuseppina Castiello, Paolo Grimoldi e Guido Guidesi.
Il tema in discussione non è nuovo, così come non sorprende il fatto che si siano fin subito definiti due schieramenti: da un lato i contrari alla proposta leghista, nel nome – dicono – della laicità dello Stato; dall’altra i favorevoli, che vedono nell’esposizione del simbolo cristiano per eccellenza un richiamo alla storia e alla cultura del nostro Paese.
Tuttavia, il dibattito che ne è nato è rivelatorio di quanta confusione ancora vi sia nel declinare in maniera propria i concetti di libertà religiosa e di libertà di pensiero. Il Timone ne ha parlato con il professor Luca Galantini, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e già protagonista del dibattito in occasione del caso “Lautsi contro Italia”, conclusosi con la sentenza del marzo del 2011 dalla Corte di Strasburgo con cui si decretava che il crocifisso non è lesivo dei diritti umani.
Professor Galantini, prima di entrare nel merito della questione in esame, potrebbe illustrare ai nostri lettori qual è la situazione ad oggi vigente in Italia circa l’esposizione del crocifisso?
«Sotto il profilo giuridico-costituzionale non c’è nessuna normativa che disciplini l’esposizione del crocifisso in aule afferenti all’amministrazione pubblica. Abbiamo però delle importanti sentenze del Consiglio di Stato (nel 2006 e nel 2008), nonché del TAR e della Corte costituzionale, le quali hanno riconosciuto come l’esposizione del crocifisso in aule dell’amministrazione pubblica sia compatibile con il dettato costituzionale di promozione della libertà religiosa. Anzi, queste sentenze hanno rafforzato la liceità di esposizione del crocifisso, in quanto esso rappresentata un elemento costitutivo caratterizzante il patrimonio storico-culturale del popolo italiano. Le sentenze citate si richiamano a un principio dottrinario fondamentale: il popolo è costituito da una pluralità di cittadini che si riconoscono in un complesso valoriale condiviso, quindi il crocifisso – che appunto è un elemento rappresentativo di questi valori – può essere esposto senza che si vada a ledere il principio di laicità; la stessa Corte costituzionale, nel 2009, ha affermato che lo Stato ha il dovere di promuovere la libertà religiosa, secondo un principio di sana laicità».
Veniamo quindi alla sentenza di Strasburgo del 2011, che ha segnato un punto fondamentale nel dibattito sul tema dell’esposizione del crocifisso in luoghi pubblici. Cosa spinse i giudici ad assolvere l’Italia, qual è stato il principio che li ha mossi?
«Anche in questo caso abbiamo avuto la conferma che la Corte di appello – in secondo grado, rovesciando la sentenza di primo grado – ha riconosciuto due principi fondamentali. Il primo è che esiste un “margine di apprezzamento”, ossia che vige la piena legittimità di ogni singolo Stato dell’Unione Europea di disciplinare in piena autonomia la liceità della promozione della libertà religiosa, sul presupposto del complesso valoriale costituzionale che gli è proprio. In sostanza si dice che non c’è una “etica mondiale laicista” che può imporre a ogni Stato di vietare la manifestazione della sfera religiosa in ambito pubblico. Tale margine di apprezzamento si basa su un secondo principio fondamentale dell’UE, che è di matrice strettamente cattolica: il principio di sussidiarietà (che prende il là dalla Rerum Novarum di Leone XIII del 1891). Questo significa che ogni Stato ha un’autonoma organizzazione in tema di bene comune e che non è lecito che un organismo sovranazionale vieti o imponga una neutralità in materia di elementi valoriali afferenti alle singole Costituzioni».
Ora la Lega vorrebbe rendere il crocifisso obbligatorio in tutti gli uffici pubblici. Quale giudizio ha avuto modo di formulare sui cinque articoli dai quali è composta la proposta di legge, si tratta di un provvedimento opportuno per il nostro Paese, in questo momento?
«In chiave squisitamente giuridica nulla vieta che si possa elaborare una proposta di legge che vada in tal senso, se mirata a valorizzare il patrimonio storico-culturale che caratterizza lo Stato, nella figura del suo popolo. Un’altra cosa è tuttavia al tempo stesso necessaria, cioè saper considerare se il valore identitario di appartenenza alla storia cristiana, che è inclusivo, può garantire il pieno riconoscimento della libertà religiosa di altri culti. In questo specifico caso, ad ogni modo, con il progetto di legge non si chiede di riconoscere il cristianesimo quale religione di Stato, il che risulterebbe essere incostituzionale perché la libertà di espressione dei vari culti, o di chi non è credente va garantita».
Le reazioni a questa proposta sono state molte, talvolta anche con toni sopra le righe. La confusione rispetto al tema della libertà religiosa sembra tanta… come legge queste dinamiche?
«Trovo molto riduttiva – e in un certo senso anche funzionale – la presa di posizione di chi intende qualificare il dibattito su questa proposta di legge come una strumentalizzazione del fattore identitario-religioso, per cui chi non si riconosce in questo valore verrebbe discriminato. La fede religiosa è uno degli elementi che concorre a definire il complesso identitario di un popolo, che ha per sua natura un carattere inclusivo alla luce del quale uno Stato giustifica un insieme di norme e leggi. Ecco perché non c’è alcuna violazione dei diritti umani laddove uno Stato attua il patrimonio culturale valoriale nel solco del dettato liberale democratico della Costituzione repubblicana».
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